Paolo Cognetti: la montagna e il Covid-19

13 marzo 2020

In questi giorni si parla del Coronavirus quasi essenzialmente come fenomeno delle città. Di montagna si parla ben poco… Tu dove sei ora, Paolo?
A Milano, vicino ai miei cari, alle persone a cui voglio bene, ai miei genitori. Mi sembra giusto stare qui, anche se avrei potuto andare in baita a Estoul, in Val d’Ayas, dove sono residente. Voglio condividere con loro questa situazione, anche a distanza, ma sapendo che l’altro è lí, magari nell’appartamento di fronte. Non vorrei sfollare in montagna, insomma, lasciando qui gli altri. Non sto pensando tanto alla montagna, in questi giorni, anche se so che gli amici che stanno lá sono piú al sicuro.

Come racconta il tuo amico Remigio (leggi il racconto), a Estoul ultimamente si vedono alcuni cittadini che si sono fermati nelle loro seconde case, anche se gli impianti di sci sono stati chiusi e tutto tace. Li vede girare spaesati, proprio come se fossero sfollati…
A me queste persone fanno un pó sorridere, scoprono ora quel volto della montagna che non conoscono, quello del lunedí mattina o della stagione di chiusura turistica, quando di solito loro sono tornati in cittá. C’è molta incosapevolezza nel vivere le cose: tanti fuggono, invece di cercare soliditá in chi ti sta accanto. Il luogo dove stare, in momenti come questo, non è altrove:  è quello in cui ci sono le persone a cui vuoi bene. Chi è abitutato a vivere in montagna, a conoscere situazioni di isolamento, di autosufficienza, forse peró riesce ad affrontare meglio una crisi come questa.

Gli abitanti delle cittá sembrano poco abituati a vivere di sé, a stare fermi in un posto.
Mi ricordo il primo inverno che ho passato in baita, a Estoul. Aveva nevicato tanto e ho domandato quando avrebbero spalato la strada per scendere a valle, pensando che sarebbe successo a brevissimo. Mi sembrava impossibile che potesse restare chiusa per piú di un paio d’ore! Quando ho realizzato che non sarebbe stato cosí, ricordo all’inizio la paura, ma poi lentamente la presa di coscienza che avrei solo potuto e dovuto aspettare. Ho capito poi che abitare a 1.800 metri vuol dire fare i conti con imprevisti che possono cambiare la tua vita quotidiana molto velocemente, e a te di solito non resta che adattarti. Aspettare, appunto. E arrangiarti, per quello che puoi. La sfida con se stessi, in questo caso, non è tanto dal punto di vista pratico – alla fine non è in gioco la sopravvivenza materiale – ma psicologico.

L’esperienza della montagna, anche per chi vive in cittá ma pratica le terre alte, puó essere di aiuto allora in eventi estremi come quello che tutti ora stiamo vivendo?
Siamo sempre piú abituati, in cittá, ad avere sotto mano tutto quello che vogliamo, quello che ci serve. Ció che ora piú ci spaventa – mentre non era cosí in passato – è l’imprevidibile, quello per cui non si vede subito la soluzione. Nell’andare in montagna, al di lá della retorica, si impara a conoscere i propri mezzi, come uscire dai guai in cui ti sei cacciato affidandoti solo alle tue risorse, sapere quello che ti serve e quanto tu stesso puoi fare, rispetto ai tuoi limiti. Chi fa alpinismo, chi frequenta intensamente la montagna, mi sembra che un pó di questa forza ce l’abbia, che puó tornare buona anche in altre situazioni, come quella attuale.
Una cosa che mi colpisce molto in questi giorni è come molti milanesi vivono l’impossibilitá di andare in montagna nel week-end, con grande frustrazione, quasi drammaticamente. Sembra impensabile, per tanti, non poter lasciare la cittá per andare a sciare, dopo una settimana di lavoro. Tanti che mi conoscono mi stanno domandando: ma come fai tu a non andare in montagna, con questa neve per di piú? Starai diventando pazzo! E invece, almeno per come vivo io la montagna, il punto non è non poterci andare il sabato mattina: so che è lá e che mi aspetta, e che non succede nulla se non ci vado per un paio di mesi. Ma sono colpito dalla fragilitá quasi infantile di persone che sembrano non avere proprio le risorse per stare ferme lì dove sono e affrontare quello che va affrontato in questo momento.
Tutto questo mi porta a riflettere sul tema del vuoto. Sará che è un periodo in cui affronto questo tema nelle mie letture, che sono attratto dalla filosofia buddhista, dalla pratica dello yoga.. Ecco, mi sembra allora che quanto ci viene chiesto in questo momento è di affrontare il vuoto, senza la frenesia di riempirlo. Affrontare il tempo vuoto, la noia anche, l’attesa: tutte cose che l’uomo prima di noi era abituato a vivere. Io che faccio lo scrittore, e ancora di piú il lettore, me ne rendo conto dalla mole dei romanzi di una volta, di come era diverso il rapporto tra l’uomo e il tempo vuoto, proprio a partire dalla lettura. Penso ai grandi romanzi russi, ad esempio: non potevano che nascere in un’epoca in cui gli uomini avevano un’eternitá di tempo per entrare in queste storie, per immergersi in esse per ore e ore.
Quella di oggi quindi è anche una bella sfida. Come quando leggo i libri di alpinismo, dove si racconta delle lunghe notti passate in un bivacco di fortuna, magari in un buco dentro la neve, ad aspettare che arrivi finalmente l’alba. Questo mi colpisce ancora di piú in quei libri piuttosto che le vicende della salita, dell’esperienza estrema: l’attesa, magari per giorni, è il momento in cui serve la pazienza, la resistenza, la fermezza di non disperarsi.

Remigio, il tuo amico di Estoul (leggi il racconto), a proposito di capacitá di adattamento, scrive che la forza del montanaro è di non essere mai una cosa sola, di non ridursi ad individuo super specializzato, ma di avere in sé tante concrete possibilitá, tante capacitá per fronteggiare il cambiamento, anche quello imprevisto.
E´cosí. Possiamo vedere la situazione attuale con il virus come una sorta di inverno in montagna: il periodo in cui svolgere diversi lavori che nel resto dell’anno non si ha tempo di fare. Anche in cittá: io, per esempio, mi sto mettendo a sistemare un pó di cose in casa, piccoli lavori, per quello che so fare. E poi ci sono i tanti libri da leggere, lasciati ad aspettarci. Sembra che siamo noi, spesso, a non avere le capacitá appunto per far fruttare questo tempo vuoto: iper specializzati, scollegati dal mondo materiale, non siamo in comunicazione con le cose concrete. Io ho appena vissuto un anno complicato dal punto di vista della scrittura: dopo tanta vita mondana, incontri, eventi pubblici, mi sono rimesso a scrivere qualche tempo fa e improvvisamente ho sentito la difficoltá di tornare a concentrarmi. Poi sono arrivati questi giorni di rallentamento forzato, di reclusione e ho ritrovato la mia capacitá di leggere un libro o di aprire il mio quaderno e mettermi a scrivere. Qualcosa che mi riporta ad una dimensione piú giusta per me. Non è tanto una questione di creativitá, forse, ma proprio di concentrazione, come quella che serve per leggere un romanzo russo, appunto.

La rarefazione delle relazioni sociali, la concentrazione su noi stessi: una sorta di spazio bianco individuale che puó rappresentare anche una grande opportunitá, se lo sappiamo vivere, anche dal punto di vista della ricerca personale.
La cittá definisce la creativitá sempre piú tramite l’incontro, la collaborazione: come il prodotto di queste relazioni, di questa intensitá di scambi, di comunicazione. E questa è anche una cosa buona che la cittá produce. La montagna invece, almeno come archetipo, è il luogo in cui la creativitá e la riflessione nascono dalla solitudine, dallo spazio e dal tempo che sono spesso anche vuoti, dilatati, sospesi. Certo la solitudine della montagna è diversa da quella della cittá, non è solo starsene chiusi in casa propria. E´una solitudine in rapporto alla natura, all’ambiente che ti circonda. Un dialogo con gli elementi che hai intorno. Se io adesso fossi in montagna, passerei molto tempo da solo nei boschi.
Andrea Membretti

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