Vivere in montagna al tempo del Coronavirus

13 marzo 2020

Febbraio è stato un buon mese. C’è stata gente quasi tutti i giorni, e non è sempre così, come del resto era pieno per le feste Natalizie. Anche se qua a Estoul la stagione dello sci sarebbe finita il 15 di marzo, speravo  con l’aiuto del tempo buono di lavorare fino a fine mese.
Poi c’è stata questa cosa del virus. All’inizio sembrava qualcosa che sarebbe passato in fretta e non c’era il timore di ammalarsi o altro. Dopo le prime due settimane qualche famiglia di turisti che aveva la casa in affitto quassù ha deciso di fermarsi, di non scendere più in città. Era strano vederli qui se non per la settimana bianca o per il weekend. Alcuni avevano paura di rimanere quassú, con questo silenzio. Ci si deve abituare a questo silenzio. Qualcuno di loro mi ha chiesto se poteva telefonarmi, in caso di bisogno. A me vederli qui in periodo diverso da quello consueto faceva sorridere ma anche pensare. Sarà stato così nel ’43 quando tanta gente scappava dalle città verso le montagne. I montanari di allora li avranno guardati  con un sorriso e con stupore?  Come assomigliava ora questa cosa a una guerra.
Poi qualche giorno fa le restrizioni sono aumentate, le scuole chiuse ma gli impianti di sci pieni e strapieni. Ho pensato che la gente di città non è abituata a stare a casa senza alzarsi alla mattina e andare a lavorare o a vedere i figli a casa da scuola . O si lavora o si va in vacanza.

Ora che anche quassù  è tutto chiuso: gli impianti di risalita, gli alberghi, i ristoranti, tutto o quasi tutto. Ora che anche quassù è come in città, penso che in fondo sentiamo la stessa mancanza. Non vi è più una grande differenza come c’era un tempo tra cittadini e montanari. Siamo l’altra faccia della stessa medaglia? I gestori dei grandi alberghi nelle grosse stazioni sciistiche sono spaesati. La chiusura anticipata di quasi due mesi o forse più li fa preoccupare: i conti saranno devastanti. Una stagione che si era preannunciata così buona finita in un disastro.
Ma qua, a Estoul, è ancora diverso: in queste piccole stazioni, dove a malapena riempi 100 giorni all’anno, devi avere almeno due, forse tre lavori differenti per farne uno solo. Così dopo il primo spaesamento dato dalla chiusura anticipata torneremo a fare quel che facevano i nostri vecchi. Cambieremo, ci adatteremo.

In fondo, senza che ce ne accorgiamo succede giá tutti gli anni. I maestri di sci, le guide alpine, gli operai degli impianti di risalita: come ogni anno, tutti si toglieranno la giacca di appartenenza per indossare chi quella da allevatore, chi quella da falegname, muratore, boscaiolo. Ho pensato allora che l’identità di un montanaro forse è soprattutto questo: essere tante cose, e mai una soltanto.
Remigio Vicquery

www.abarmadrola.it

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