Tutto tutto, niente niente

15 giugno 2023

Mai visti così tanti papaveri come quest’anno. La forte e prolungata siccità ha fessurato l’arida terra creando le condizioni ideali affinché i minuscoli semi di papavero potessero penetrare nel suolo per poi germogliare e fiorire abbondantemente. Piante un po’ particolari i papaveri, in grado di nascere e crescere con poco; tuttavia, nella loro euforica esplosione anch’essi con ogni probabilità ci raccontano di un pianeta che sta cambiando velocemente, molto velocemente, più di quanto si possa immaginare. E l’amplificazione di eventi estremi come la siccità ne è la prova. Nell’inverno 2022/2023 alla mancanza di piogge in pianura si è associata una forte carenza di precipitazioni nevose sulle montagne. Sulle Alpi, le cui nevi provvedono al 60% dell’alimentazione del fiume Po, è nevicato la metà rispetto alla media (Fonte, CIMA Research Foundation) e le abbondanti precipitazioni di maggio e quelle che verranno speriamo anche a giugno, non riusciranno a colmare questo deficit. La riduzione delle precipitazioni nevose rientra in un trend più ampio, ben documentato dal mondo scientifico. Addirittura si prevede che a un’altitudine di 1500 m, tra il 2030 e il 2050, avremo l’80-90% di neve in meno, ciò innanzitutto in connessione con l’innalzamento dello zero termico medio. Per gli anni a venire si va prefigurando una carenza significativa della risorsa idrica, in prospettiva anche grave per le comunità, soprattutto per la pianura e la città. Perché è proprio l’acqua contenuta nella neve delle montagne a fornire l’approvvigionamento idrico per i mesi primaverili ed estivi. Oltre alle piogge, infatti, manca anche quella quantità di neve in grado di rifornire adeguatamente le riserve idriche montane, vitali per la sopravvivenza dei nostri corsi d’acqua e quindi per la vita in pianura. A tutto ciò si aggiunge la sempre più repentina riduzione delle masse glaciali che contribuirà ad acuire il fenomeno. La conseguenza più immediata può essere misurata con le perdite economiche del settore agroalimentare, pari a 6 miliardi lo scorso anno, o in termini di riduzione di produzione di energia elettrica e difficoltà nel settore del turismo invernale, se non addirittura di approvvigionamento per le abitazioni. Ma possiamo aspettarci che le conseguenze sul lungo termine si riflettano ancor più direttamente sulla salute e sulla vita delle persone.

Nuovi equilibri

La crisi climatica ci costringe a spostare lo sguardo verso l’alto, verso le montagne, là dove si originano gran parte dei servizi ecosistemici. Essi per definizione sono quei benefici multipli, come l’acqua, forniti dagli ecosistemi al genere umano, servizi che i cittadini sono abituati ad usare senza farsi troppe domande. Tuttavia ora le condizioni ci impongono una maggior attenzione al valore ambientale, nonché sociale e economico di questi beni che prima sembravano invisibili. Da qui l’importanza di costruire nuovi significati della montagna all’interno dei cambiamenti globali, in particolare di quelli climatici.

La montagna italiana è frutto di una lunga storia, gli ecosistemi naturali originari sono stati trasformati dalle società umane. Ambienti in perenne squilibrio idrogeologico sono diventati nel corso dei secoli vivibili e utilizzabili, creando di volta in volta nuovi equilibri artificiali. Equilibri che in alcuni casi si sono mantenuti e in altri no, in quanto frutto di interventi obsoleti impattanti o semplicemente inadeguati alla situazione attuale. Ora è il momento di rivederne le condizioni facendo leva su nuove forme di cooperazione tra città e montagna. Occorre ripartire da una rilettura dei territori, una rivisitazione che sappia mettere in campo efficaci rappresentazioni, capaci di cogliere le nuove opportunità che si vanno definendo nel riconoscere i benefici diretti ed indiretti che l‘uomo può trarre dalla natura e dai suoi ecosistemi. Una maggiore attenzione agli equilibri naturali insieme ad un atteggiamento di cura degli ecosistemi stessi hanno l’effetto di limitare il rischio di fenomeni imprevedibili come la carenza delle precipitazioni o le alluvioni eccezionali avvenute in Romagna. Non servono ‘più opere’ ma una revisione epocale della gestione dei fiumi e del territorio.

Gestire lo straordinario in modo ordinario

In specifico per quanto riguarda la siccità si tratta di innescare un processo dove possano scaturire nuove connessioni tra attori locali e mondo cittadino, contemplando le molteplici interconnessioni, poiché la gestione del problema siccità richiede un approccio molto più articolato di quanto si possa prevedere semplicemente con la proposta di nuovi bacini artificiali. Nuovi sguardi della e sulla montagna declinati su un paradigma che compenetri: la rivalutazione dell’uso del suolo, la gestione delle foreste, le attività agro-alimentari, non ultima la pianificazione urbana. Insomma un approccio multilivello e multisettoriale così come descritto nel recente appello sull’emergenza siccità rivolto al Governo, sottoscritto da ben 15 associazioni nazionali. “I cambiamenti climatici – dichiarano le associazioni – ci impongono di rivedere le strategie sul fronte dell’offerta andando oltre una visione novecentesca e meccanicistica del capitale naturale per arrivare a riconoscere l’importanza e l’utilità della funzionalità degli ecosistemi a partire da una maggiore attenzione alle falde”. Le associazioni puntano su un approccio integrato e su una forte diversificazione delle azioni, ricorrendo ove possibile a soluzioni basate sulla natura che sono multiobiettivo e spesso più economiche e di maggiore impatto per andare oltre l’emergenza. Si chiede di mettere in campo una strategia nazionale integrata e a livello di bacini idrografici, allargando e ampliando il ventaglio delle soluzioni tecniche praticabili attraverso la realizzazione di nuove e moderne pratiche e misure per ridurre la domanda di acqua ed evitarne gli sprechi. Con esse si comprende il risparmio negli usi civili attraverso la riduzione delle perdite e dei consumi ma soprattutto negli usi agricoli anche attraverso una intelligente rimodulazione degli strumenti di programmazione regionali della nuova PAC, per renderli capaci di orientare le scelte degli agricoltori verso colture e sistemi agroalimentari meno idroesigenti e metodi irrigui più efficienti.

In conclusione non servono “piani straordinari” concepiti sull’onda dell’emergenza, piuttosto abbiamo bisogno di una pianificazione “ordinaria” che favorisca l’adattamento ai cambiamenti climatici. Perché negli anni a venire sarà necessario gestire lo “straordinario” causato dalla crisi climatica in modo “ordinario”. Lo sforzo sta nel riuscire a percepire e studiare meglio i cambiamenti per cercare nuovi equilibri, prodromi di un nuovo rapporto con il pianeta. Uno spazio culturale dove far riconnettere le persone con la natura ma utile anche per connettere la mentalità urbana con quella rurale.

Vanda Bonardo

Nessun commento.

Replica








Web design e sviluppo: Resonance