Ttip: come togliere sovranità ai territori

7 settembre 2015

Mentre si fa un gran parlare a livello locale della valorizzazione dei prodotti alimentari di qualità, dell’importanza dei prodotti di nicchia per i territori e per i loro abitanti, delle potenzialità di produzioni tipiche da proporre a turisti-ospiti in cerca di esperienze uniche, con lunghi ragionamenti che toccano in maniera specifica anche i territori montani, a livello europeo e transatlantico sembra esserci chi “rema” in senso contrario: promuovendo il Ttip, ovvero il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti.
Il Ttip è un trattato molto ampio tra Ue-Usa, che coinvolge praticamente tutti i settori commerciali, tra cui anche quello alimentare. Il fine dichiarato è quello di creare una sorta di “unificazione del mondo occidentale” per reagire allo strapotere commerciale dei BRICS, i cinque paesi tra le maggiori economie emergenti (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Ma sono molte le associazioni di tutto il mondo che accusano l’operazione, sostenendo che il trattato permetterebbe alle multinazionali di far causa ai governi e di avvalersi di corti arbitrali nel caso in cui le norme di uno stato danneggiassero i profitti dell’azienda. In altre parole, il Ttip darebbe alle multinazionali autorità senza precedenti, minacciando così di calpestare processi democratici, l’esercizio del potere pubblico, la protezione dell’ambiente e dei consumatori.

Allarmismo o realtà? Secondo Slow Food da un rafforzo del commercio internazionale del cibo verranno fortemente danneggiati i consumatori, che avranno meno trasparenza in filiere alimentari sempre più lunghe, e i piccoli produttori, che si rivolgono al mercato locale e che costituiscono il tessuto sociale ed economico delle regioni interessate, custodendone l’ambiente e le tradizioni alimentari. E addirittura istituzioni internazionali come Fao e Unctad, le agenzie Onu che lavorano su Agricoltura, Commercio e Sviluppo, sottolineano come per uscire dalla crisi economica ambientale, ma soprattutto sociale che stiamo vivendo, non siano prioritari trattati di questo genere, ma al contrario il rafforzamento dei mercati locali, con programmazioni territoriali regionali e locali più attente basate su quanto ci resta delle risorse essenziali alla vita e quanti bisogni essenziali dobbiamo soddisfare per far vivere dignitosamente più abitanti della terra possibili.
In quanto al cibo, l’accordo mira ad armonizzare le normative europee con quelle statunitensi. Ciò significa che si dovrà giungere a compromessi tra posizioni molto diverse, per esempio sulla valutazione dei rischi alimentari. I negoziati prendono anche in considerazione il riconoscimento reciproco degli standard alimentari, sulle etichette e sull’utilizzo di ormoni, per citarne alcuni.
Ma cosa succederebbe al mercato nostrano del cibo? L’armonizzare delle regole europee con quelle statunitensi richiederà compromessi tra posizioni molto diverse. Ad esempio, se i dati scientifici in Europa non consentono una valutazione completa del rischio di un prodotto, l’Ue stabilisce regole preventive per evitare rischi per la salute umana, animale o vegetale; negli Stati Uniti, invece, fino a prova scientifica contraria, si può produrre, vendere e mangiare tutto. In Europa la valutazione dei rischi è effettuata da autorità ufficiali, negli Stati Uniti le autorità si affidano alle analisi private delle aziende. Le norme Ue prevedono misure lungo tutta la filiera per garantire la sicurezza del prodotto finale, negli Stati Uniti invece si prediligono trattamenti chimici del prodotto finale per eliminare virus e batteri. I negoziati, inoltre, prendono in considerazione il reciproco riconoscimento degli standard alimentari. Carne statunitense trattata con ormoni per la crescita (ora banditi nell’Ue) e prodotti contenenti Ogm potrebbero così entrare nell’Ue e senza indicazioni in etichetta. Che informazioni avrà allora il consumatore sul suo cibo? E chi può beneficiare di un trattato per il commercio transatlantico? Certo non le piccole aziende che servono il mercato locale. In Italia solo il 2% delle imprese ha più di dieci dipendenti, solo il 5% esporta e oltre un quinto di quelle esportazioni è destinato a paesi europei. A guadagnare, dal Trattato, saranno quindi poche grandi aziende, mentre quelle piccole dovranno gareggiare con prodotti importati meno cari.
Con buona pace delle aziende agricole alpine, che avranno sempre meno strumenti per competere con i colossi dell’alimentazione.
La partita è ancora tutta da giocare, e la società civile non ci sta.
Maurizio Dematteis

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