Storia e borgate a misura di alpeggio

30 maggio 2014

Per capire le borgate bisogna capire gli alpeggi. Nel senso che occorre rendersi conto che alla base della scelta degli insediamenti non vi erano solo ovvie questioni di difesa da pericoli oggettivi, ma in primo luogo la facilità di approvvigionamento di erba e fieno e la possibilità di pascolo. In altre parole, gli insediamenti sono nati sempre in luoghi che permettevano uno sfruttamento razionale delle risorse foraggere, minimizzando sprechi e spostamenti. E la sopravvivenza in montagna imponeva una razionalità assoluta nell’uso delle risorse: in epoche in cui ogni trasporto richiedeva tempo e fatica oggi difficilmente immaginabili, era molto più sensato costruire abitazioni temporanee o permanenti nella vicinanza di prati e pascoli piuttosto che privilegiare altri fattori oggi considerati prioritari, come la distanza dal fondovalle e le facilità di accesso e comunicazione.
Questo si può vedere bene nelle basse valli, dove le maggiori borgate sono dislocate appena sopra il limite superiore locale del castagneto e immediatamente sotto i pascoli. Gli esempi in Valle Stura e Grana sono innumerevoli: rientrano infatti in questa fascia altitudinale le borgate più popolate di Rittana (Gorré, le due Rantana, Martina, ecc.) e di Valloriate (Sapé, Gorré, Chiotti, ecc.), le borgate del pianoro di Bergemolo e Bergemoletto a Demonte, le frazioni alte di Valgrana in Val Cavoira, quelle dei valloni laterali di Monterosso e molte altre.
La posizione era strategica: consentiva di risparmiare terreno prezioso nella fascia in cui i castagni erano produttivi e godere della vicinanza di prati e pascoli. Era più conveniente trasportare in salita le nutrienti castagne, piuttosto che l’ingombrante fieno e il pesante legname che veniva facilmente fatto scendere nei ricoveri dalle vicine montagne.
Anche nelle alte valli la vicinanza agli alpeggi era un fattore determinante nella scelta della localizzazione degli insediamenti e determinava la maggiore o minore “ricchezza” delle varie borgate. Tipico è il caso di Castelmagno, in cui le due borgate più prospere e popolate erano le più alte, Chiotti e Chiappi, proprio per la posizione favorita dall’immediata vicinanza di ricchi alpeggi. I numeri sono indicativi: non solo nel Censimento del 1848 gli abitanti delle due borgate erano 490, ben oltre un terzo dell’intero comune, ma possedevano anche molti muli (significativo indice di benessere economico) e un numero di vacche per azienda decisamente superiore rispetto alle borgate inferiori. I dati della tassa sul bestiame del 1937 confermano anche in tempi più recenti questa situazione: nelle due borgate vi erano ben 37 muli, 131 vacche e 38 manze, una consistente parte del patrimonio zootecnico del paese.
Anche l’esame degli altri insediamenti del comune rivela una stretta connessione con la disponibilità di foraggio. Cauri, Valliera e Campofei sono situate al margine inferiore di ampie zone un tempo prative e ora adibite a pascolo: le borgate fanno sovente da “porta d’accesso” ai pascoli.

In alcuni casi gli insediamenti fanno da cerniera fra il sistema di campi e prati “grassi” nelle immediate vicinanze delle abitazioni permanenti e quello dei pascoli e dei prati in quota non concimabili.
A volte si creavano nuclei abitativi dislocati a quote diverse, ma a distanza relativamente ridotta, per ottimizzare tempi e spostamenti. Non si tratta solo del comune accoppiamento di una sede permanente a bassa quota e di una temporanea nella fascia dell’alpeggio per i mesi estivi, ma di una vera e propria articolazione delle attività aziendali e della vita famigliare in luoghi diversi ma non troppo distanti
La filosofia che stava alla base di questa scelta era quella di minimizzare i trasporti e di ottimizzare i tempi. Spesso non abbiamo la percezione di quanto fosse determinante il fattore tempo in montagna: la stagione estiva era breve e i lavori fatti a mano, falciatura, fienagione, mietitura, raccolta delle patate, richiedevano impegni orari notevoli. La soluzione era quella di avere terreni ed edifici su più livelli per poter concatenare i vari lavori in una successione precisa.
E’ il caso delle frazioni del vallone di Neraissa a Vinadio, in cui molte famiglie disponevano di sedi su tre diversi piani altitudinali che consentivano una quasi cronometrica scansione delle attività agricole e pastorali.

Sia alla quota del Podio che a quella di Neraissa vi erano terreni con poca pendenza usati come seminativi in rotazione o come prati “grassi”, regolarmente concimati. La doppia disponibilità di ricoveri e di terreni permetteva di usare in loco il letame prodotto dal bestiame per la concimazione e parte del fieno per l’alimentazione, evitando onerosi trasporti.
La diversità di quota permetteva di sfalsare i lavori di semina e fienagione consentendo una tempistica molto efficace, con incastri perfetti. L’allevamento contemporaneo di capi bovini e ovini completava poi il quadro, consentendo uno sfruttamento davvero ottimale di tutte le risorse foraggere.
Gli ovini (di razza Sambucana, visto che, a dispetto del nome era questa la zona in cui si è conservata fino ai tempi attuali in relativa purezza), dopo l’inverno in stalla e i primi pascoli attorno al Podio, si trasferivano già a fine maggio, inizio giugno a Neraissa (se mountagnaven). La gestione del gregge era comunitaria (la soucietà): si facevano i turni, per ogni venti pecore possedute ogni allevatore doveva dare la disponibilità di un giorno di lavoro.
In quel periodo si facevano i fieni al Podio e si seminavano le patate. Finiti i primi fieni alla quota bassa, all’inizio di luglio si faceva la meira, cioè ci si trasferiva con le vacche (vacios) a Neraissa, dove era arrivata l’ora di iniziare la fienagione (siàr lou fen).
Finito anche questo lavoro nei prati intorno alle borgate di Neraissa, gli uomini tornavano temporaneamente al Puy per occuparsi della mietitura (meire lou bìa, l’uörgie, la biavo e lou frument), cosa che richiedeva una decina di giorni. Le donne (les fremes) restavano invece nella borgata alta ad accudire gli animali.
Non c’era tempo, nel breve e intenso periodo estivo, per la battitura dei cereali, lavoro lungo e ripetitivo che veniva svolto nella pausa invernale, per cui i covoni erano messi temporaneamente al riparo nei fienili e si ritornava a Neraissa, dove si riprendeva la fienagione accumulando il prodotto nella borgata, in attesa di trasportarlo a valle (calalou lens) in periodi di lavoro meno intenso.
Ai primi di settembre (a la Madono) si scendeva di nuovo al Puy per raccogliere le patate (chavar li bodi). Gli animali restavano in quota, controllati, nel caso degli ovini, secondo i turni prestabiliti. Quelli che non erano impegnati col turno scendevano e in qualche giorno di lavoro raccoglievano le patate e le ricoveravano in cantina.
Poi si risaliva e si andava a tagliare il fieno a la mountagno. Lassù c’erano i prati che non venivano mai concimati, si tagliava solo il fieno una volta (en viage a l’an). Erano prati a Festuca, lou cairel. Si lavorava in montagna per dieci, quindici giorni, si facevano i fenìer (mucchi di fieno accatastato in modo da resistere alle intemperie), trasportati a valle con la slitta nella pausa invernale.
Le vacche venivano fatte scendere al Podio verso la metà di settembre. A Neraissa stavano solo più le pecore: quelle che dovevano agnellare erano tenute vicino alla frazione, le altre andavano ancora al pascolo in alto.
A fine settembre si finivano i fieni in quota e si scendeva a valle anche con le pecore. Vacche e pecore, scese al Podio, erano portate al pascolo sulla rieizo (secondo fieno), che veniva tagliato solo quando era particolarmente bello e ne valeva la pena, altrimenti era consumato verde dagli animali. Quando si tagliava, la rieizo si teneva da parte e la si dava in inverno agli agnelli. Gli animali andavano al pascolo al Podio fino all’arrivo della prima neve (inizio o fine ottobre) prima di iniziare la lunga reclusione invernale.
Al Puy si seminava la segale dopo aver tolto le patate, sfruttando la fertilità residua data dall’abbondante concimazione organica distribuita nell’occasione. A Neraissa, a causa della quota più elevata, questo tipo di rotazione non era possibile e si seminava prima, in agosto, quando la segale dell’anno precedente era ancora da tagliare, su un campo lasciato vuoto per un anno (garàch).
D’autunno, la segale alta 15-20 centimetri prendeva il nome di bàoucio. A volte, prima di scendere con le pecore dalla frazione (desmountagnàr) si faceva mangiare la bàoucio. Si facevano passare velocemente le pecore sulla segale alta un palmo, sia per sfruttarla come foraggio, sia per fare una sorta di cimatura, in modo che la neve non la rovinasse schiacciandola.
Questa era la scansione dei lavori nel vallone di Neraissa fino a tempi recenti (anni 60-70), prima che meccanizzazione e spopolamento cambiassero il volto dell’agricoltura e della società nelle borgate.
Un esempio fra i tanti che si potrebbero fare, per capire come la scelta degli insediamenti fosse condizionata dalle attività di coltivazione e di allevamento e di come l’architettura fosse funzionale all’agricoltura. E che non può non lasciarci ammirati per la precisa concatenazione dei lavori, frutto di una cultura che aveva saputo, nel corso dei secoli, inserirsi perfettamente nell’ambiente e utilizzarne al meglio tutte le risorse naturali e umane.
Lele Viola

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