Non proprio come Dumas

30 settembre 2011

Vent’anni possono essere tanti o pochi, dipende dall’uso che ne fa la Storia. Per esempio nel romanzo di Alexandre Dumas “Vent’anni dopo”, il secondo del ciclo dei moschettieri, accadono un mucchio di cose: muore il cardinale Richelieu e viene sostituito dal perfido Mazarino, muore Luigi XIII lasciando il trono a un bambino che diventerà il Re Sole, il prode D’Artagnan compie quarant’anni e perde di vista gli altri moschettieri, il popolo insorge contro le tasse, D’Artagnan riunisce il quartetto…
In vent’anni di Convenzione alpina non è successo niente di simile: in quota la Storia sembra ferma, addormentata, in attesa. E siccome la Storia siamo noi, come cantava De Gregori, un po’ anestetizzati lo sono anche i montanari, storditi da un mondo che gli cambia addosso. Certo le Alpi del Duemila non sono la Francia del Seicento e fortunatamente la Convenzione non è un romanzo d’appendice, ma in vent’anni si sperava in qualcosa di più visibile, di più coraggioso, almeno quanto il salto culturale che nei vent’anni precedenti aveva trasformato l’immagine e il ruolo delle Alpi portando, appunto, a concepimento, stesura e firma di una lungimirante “costituzione” condivisa da tutti i Paesi alpini.
A leggerla oggi si resta colpiti dalla modernità delle analisi e dall’attualità dei suggerimenti operativi, anche se naturalmente qualche correzione è possibile. Ma non sostanziale, non decisiva. L’impianto della Convenzione regge e, almeno per quanto riguarda l’Italia, ultima della classe, molte delle linee guida appaiono ancora profetiche rispetto alle scelte politiche realmente operate tra il 1991 e il 2011.
Sul versante meridionale delle Alpi è stato soprattutto il mercato a prendere le decisioni, a cominciare dal patrimonio delle energie rinnovabili di cui le montagne sono generose fornitrici: acqua, legno, sole. Il protocollo dedicato all’energia può oggi dirsi quasi del tutto recepito culturalmente e in parte sviluppato territorialmente. Ben diverso il settore dei trasporti, dove un mercato non governato continua a privilegiare senza scampo gli spostamenti su gomma e asfalto, e poco o nulla è stato fatto per invertire la tendenza.

Recita la Convenzione: «Occorre introdurre progressivamente sistemi di tassazione che favoriscano il ricorso ai vettori e ai mezzi di trasporto più rispettosi dell’ambiente». Il protocollo parla esplicitamente di “verità dei costi”, nel senso che quelli di un Tir, per esempio, non si possono misurare semplicemente in termini di gasolio ma al carburante vanno aggiunti i costi “sociali” e ambientali del camion: inquinamento dell’aria, inquinamento acustico, incidenti, disturbo delle comunità residenti, eccetera. Se questi passivi vengono accollati alla potente lobby degli autotrasportatori attraverso la tassazione del trasporto su gomma allora la ferrovia diventa competitiva negli spostamenti delle merci, altrimenti si potranno costruire anche opere straordinarie come la Tav della Valle di Susa ma i Tir continueranno a scegliere l’asfalto. Tutto ciò è ben noto in Svizzera, dove nel 1994, con referendum popolare, è stato inserito nella Costituzione un articolo sulla protezione delle Alpi dall’inquinante dei transiti, e dove il 23 marzo 2011 è stato abbattuto l’ultimo diaframma di roccia della supergalleria di 57 chilometri sotto il San Gottardo. Eppure gli svizzeri sanno bene che non basterà bucare il Gottardo per ottenere automaticamente dei risultati: l’hanno già sperimentato con l’apertura del Lötschberg tra la valle del Rodano e la regione di Berna, dove oggi, a conti fatti, passa appena un terzo delle merci previste dalle proiezioni dei transiti sul corridoio Genova-Rotterdam. Nonostante la tassa e nonostante l’efficienza del sistema ferroviario, i Tir continuano a preferire l’autostrada per aggirare il massiccio dell’Oberland, a conferma del fatto che non bastano le grandi opere ma innanzitutto servono buone politiche.
Torniamo in Italia. Nel settore del turismo la parola va ancora ai mercati, dunque alla legge della domanda e dell’offerta, anche se le regioni a statuto speciale (Valle d’Aosta, Friuli, Trentino e Alto Adige, soprattutto) hanno indubbiamente favorito il cambiamento e la cultura degli operatori non è più quella di vent’anni fa. Sulle Alpi il turismo sostenibile, o soft, è spesso più necessità che scelta, perché l’industria dello sci mostra crescenti segni di difficoltà, spesso le nuove generazioni disertano le seconde case e molti amministratori locali hanno capito che l’ambiente è l’unica vera risorsa durevole in montagna, nonché il motivo per cui la gente lascia la città. Qui si inserisce un nuovo tema e un nuovo spazio di dibattito: i cambiamenti climatici. Se fosse riscritta oggi, la Convenzione delle Alpi vi dedicherebbe un protocollo specifico, invitando i governi a intervenire al più presto. Negli ultimi vent’anni l’aumento delle temperature e il ritiro delle nevi perenni hanno limitato l’offerta sciistica, ormai realisticamente relegata sopra i 1500 metri di quota e subordinata all’innevamento programmato. Ma non solo: i cambiamenti climatici hanno trasformato gli sfondi consolidati delle cartoline d’alta quota e cambiato i connotati estetici delle valli. La salita dello zero termico ha condizionato anche il turismo estivo e le pratiche alpinistiche tradizionali, imponendo decisioni urgenti per limitare le emissioni di gas serra: navette ecologiche al posto delle auto private, recupero delle vecchie linee ferroviarie e realizzazione di nuove linee (Val Venosta, Val Pusteria), rigida coibentazione degli alberghi e delle abitazioni. La parola chiave è il risparmio: energetico, economico e ambientale.
Infine, se fosse riscritta oggi, la Convenzione prenderebbe in considerazione quel fenomeno di migrazione alla rovescia, o di ritorno alla montagna, che mostra ancora timidi segnali e piccoli numeri qua e là sull’arco alpino, ma denota una fondamentale inversione di tendenza. Alcune delle regioni che vent’anni fa perdevano abitanti, oggi sono passate dal segno meno al segno positivo grazie ai “nuovi montanari”. Si tratta di una popolazione complessa, che va dai giovani neorurali ai pensionati, dai cittadini extracomunitari ai disoccupati urbani, dall’eremita tecnologico all’artista alla guida alpina. Regioni ricche come la Valle d’Aosta affidano ai pastori marocchini la più gloriosa delle tradizioni, l’alpeggio, e regioni apparentemente immutabili come il Sud Tirolo sperano nella compiacenza delle donne dell’Est per tenere in vita l’antica istituzione del maso chiuso. Ma c’è di più: mentre i nativi subiscono il complesso dell’emarginato e continuano a sognare i vantaggi veri o presunti della città, i cittadini che ne hanno sperimentato i limiti salgono in montagna con la voglia di fare e la fiducia di reinventare, diventando il sale delle nuove comunità alpine. Tra vent’anni scriveremo certamente di loro.
Enrico Camanni

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