Non c’è più lo sviluppo locale di una volta (da dentro)

2 ottobre 2015

Non c’è più lo sviluppo locale di una volta… potrebbe dire chi ha assistito al seminario di Milano del 14 settembre su sviluppo e territorio. I motivi sono sostanzialmente due: il mondo cambia rapidamente e le politiche sin qui praticate presentano difetti intrinseci che le rendono poco efficaci. I fattori del cambiamento mondiale sono la globalizzazione, la digitalizzazione della società e dell’economia e la crisi della politica che deriva da entrambe queste cose. Aldo Bonomi ha giustamente lamentato che la politica è sempre meno quella dei luoghi e sempre più quella dei flussi. Io aggiungerei che sono due politiche opposte tra loro: quella dei luoghi consiste nel governare i territori, quella dei flussi (parlo di quelli globali), visto che non è possibile governarli, consiste nell’accettare di esserne governati, cioè in pratica a rinunciare a fare politica. Ma così si rischia anche di non governare lo sviluppo dei territori. Forse lo si potrebbe fare se cambiasse l’approccio allo sviluppo locale e qui entra in gioco il secondo motivo per cui le politiche non possono più essere quelle di una volta.

Non si può stare dalla parte dei territori senza opporsi al dominio dei flussi, cioè dei soggetti extra-territoriali dell’economia globale che dettano le loro regole agli stati e all’Ue, anche per quanto riguarda le politiche e gli strumenti dello sviluppo locale, tutti orientati alla competizione economica o a una “coesione” che consiste soprattutto nella produzione di collective competition good. Uno sviluppo locale a servizio del benessere dei territori e non della competizione globale è per sua natura antagonista o almeno resistente a questa politica e all’ideologia che la sostiene. Gli strumenti istituzionali per generare uno sviluppo realmente “dal basso” non devono soltanto insegnare, ma anche imparare dai soggetti locali. Non devono seguire gli schemi competitivi dominanti, ma partire dall’ascolto dei bisogni di chi vive e lavora nei luoghi, bisogni che non sono solo economici, ma soprattutto quelli che riguardano il ben vivere.
Avendo avuto l’onore di essere tra i relatori, ho sostenuto che lo sviluppo locale va pensato come un abito su misura per ogni territorio e che i programmi vanno costruiti attraverso un dialogo non facile con i diversi soggetti locali per capire come pensano, parlano, valutano, conoscono, si comportano, quali tensioni ci sono tra chi innova e chi frena, tra i “cacicchi” (come li ha chiamati Giuseppe De Rita) che sfruttano posizioni di rendita e chi vorrebbe cambiare, ecc. Come ha detto bene Carlo Borgomeo, l’offerta (di procedure, supporti tecnici e finanziamenti) non deve prevalere sulla domanda (di ciò che soddisfa veramente i bisogni locali). I soggetti locali non devono accettare che in cambio di qualche co-finanziamento le decisioni sul loro futuro siano prese da altri, in sedi lontane. Né che l’agire locale sia filtrato da burocrati ed “esperti” che applicano modelli decontestualizzati a politiche presentate invece come place-based.
Beppe Dematteis

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