Le indicazioni geografiche tutelano le produzioni?

7 giugno 2019

I cibi tradizionali di montagna portano una ricchezza di gusti, di saperi e di riti che può avere non solo un valore culturale e identitario ma anche economico per le popolazioni alpine, se ben gestito. Perché questo patrimonio immateriale non vada perduto è necessario che alle azioni di salvaguardia si affianchino strategie che rendano sostenibili economicamente questi metodi produttivi: in altre parole, differenziare adeguatamente i prodotti evitandone la sovracommercializzazione.
Nell’ambito delle azioni a tutela della proprietà intellettuale, l’Unione Europea ha istituito un sistema di protezione e controllo finalizzato a identificare quei prodotti la cui eccellenza e reputazione sono strettamente connesse al territorio in cui sono prodotti e/o trasformati: questo è il sistema delle indicazioni geografiche. Le due indicazioni geografiche principali sono: la Denominazione di Origine Protetta, che identifica prodotti realizzati in una specifica area geografica con materia prima locale e procedimenti codificati, e l’Indicazione Geografica Protetta, che identifica prodotti la cui qualità e reputazione sono strettamente legate a un territorio sebbene gli ingredienti non provengano necessariamente da esso.

Sarebbe naturale pensare che questi schemi di qualità certificata rappresentino lo strumento principe per la tutela dei prodotti coerenti con la cultura alpina e un sicuro indicatore di qualità e tipicità per il consumatore.
Non sempre tuttavia questo avviene, e non mancano i casi in cui proprio gli artigiani più fedeli alla tradizione rimangono esclusi o rifiutano la denominazione, considerandola lesiva della distintività del loro prodotto. La causa principale della divaricazione che può avvenire tra una produzione tradizionale e l’indicazione geografica sta nella natura negoziale e politica del processo di definizione del disciplinare. La richiesta della certificazione Dop o Igp viene fatta da un gruppo di produttori che si deve accordare sull’area geografica di riferimento, sulle materie prime e sui modi di lavorazione. Una volta che il disciplinare è inviato alle autorità europee, la bozza viene pubblicata così che tutti coloro che hanno interesse possono far sentire la propria voce. Alla negoziazione interna si aggiungono quindi eventuali pressioni esterne, cosicché, senza qualche concessione diplomatica, il riconoscimento dell’indicazione geografica può rimanere bloccato anche per anni.
Un caso in cui la nascita della Dop ha significato il completo stravolgimento di un prodotto è quello del Bitto, analizzato in profondità da Diego Rinallo e da Valentina Pitardi nell’ambito del progetto AlpFoodway. Il Bitto è un formaggio prodotto nella valle attraversata dal torrente Bitto, nel parco delle Orobie Valtellinesi. Si tratta storicamente di un formaggio prodotto dal latte di mucca Bruno Alpina e di Capra Orobica (20-30%) nel periodo estivo, quando gli animali pascolano in alpeggio. Ma quando, nel 1983, fu creato il consorzio del formaggio Bitto e fu lanciato il processo per l’ottenimento della certificazione Dop esistevano in Valtellina diversi formaggi simili al Bitto, mentre la produzione del Bitto tradizionale era diminuita del 35% rispetto a inizio secolo a causa del progressivo abbandono degli alpeggi. Così, venne promossa l’estensione del territorio di riferimento non solo alle valli limitrofe, ma all’intera provincia di Sondrio. Allo stesso tempo, il requisito della produzione in alpeggio fu eliminato dal disciplinare, fu consentito il nutrimento del bestiame con mangimi e l’uso di enzimi durante la lavorazione, mentre la percentuale di latte di capra fu ridotta al 10%, con la possibilità di ometterlo del tutto. Insomma, il disciplinare consentì a grandi caseifici fuori dalle valli del Bitto di approfittare della reputazione associata a questo nome e, non a caso, otto anni dopo il riconoscimento Dop la produzione di Bitto era quintuplicata. Appena la Dop fu approvata, nel 1994, i produttori che utilizzavano ancora i metodi tradizionali si riunirono in un comitato per la difesa del Bitto Storico. Fu l’inizio della “guerra del Bitto” che proseguì con alterne vicende fino al 2016, quando, in occasione del Salone del Gusto, i ribelli dichiararono la morte del Bitto Storico e l’adozione del nuovo brand “Storico Ribelle”, riconosciuto come presidio da Slow Food.
La “guerra del Bitto” fu fortemente mediatizzata e raccontata come una “resistenza casearia” contro lo strapotere delle grandi aziende. Questo suscitò interesse nell’opinione pubblica e aumentò sia la conoscenza del Bitto tradizionale sia la simpatia del pubblico per i “ribelli”, giustificando i più alti prezzi del loro prodotto sia con la qualità sia con un intero sistema simbolico. A dimostrazione dell’adesione ideale ed etica che questa narrativa ha suscitato, la Società ad azionariato popolare Valli del Bitto, che oggi gestisce la stagionatura e la commercializzazione del prodotto, continua ad incrementare il numero degli investitori nonostante la perdita operativa registrata a bilancio. Inoltre, la vendita all’asta di alcune forme di Bitto storico lo ha reso noto come uno dei formaggi più cari ed esclusivi al mondo. Se quindi da un lato la tradizione coltivata dai piccoli produttori della valle del Bitto è stata sfruttata da realtà di tipo industriale, dall’altro la mediatizzazione dei conflitti che ne sono nati e la narrativa della ribellione hanno permesso ai produttori tradizionali di posizionare sé stessi e il proprio formaggio in maniera assai efficace.
Esistono anche casi in cui le denominazioni funzionano. Sono quelli in cui gli attori in campo sono stati in grado di trovare il giusto bilanciamento tra valorizzazione economica e rispetto del patrimonio culturale legato al cibo. In questi casi, le concessioni a modalità produttive diverse sono limitate, il prodotto mantiene la sua distintività e le comunità locali riescono a riconoscersi nel prodotto a marchio Dop. Certamente questo può scontentare qualcuno, che però potrebbe utilizzare una certificazione diversa, come l’IGP. Significa rinunciare ad approfittare di un appellativo la cui reputazione, fondata su un altro tipo di prodotto, rischia di essere poi compromessa. Allo stesso tempo, significa mandare messaggi chiari al consumatore, che sa cosa aspettarsi quando acquista quel prodotto.
Un caso in cui questo sistema ha avuto successo è quello dell’aceto balsamico di Modena. Di questo esistono due varietà: l’aceto balsamico di Modena Igp e l’aceto balsamico tradizionale di Modena Dop. In questo caso la somiglianza tra i nomi probabilmente ha permesso alle grandi aziende produttrici di aceto Igp di sfruttare l’immagine e la storia dell’aceto balsamico tradizionale, che si dice risalire a Matilde di Canossa. Allo stesso tempo, l’ampia commercializzazione del prodotto Igp ha fatto conoscere l’aceto balsamico nel mondo e potrebbe aver addirittura facilitato la penetrazione di quello che invece è e sarà sempre un prodotto di nicchia, l’aceto balsamico tradizionale. La sua esclusività e il suo valore sono evidentemente riconosciuti dal mercato senza che l’esistenza di un prodotto diverso e di massa, pur con nome simile, ne possa scalfire l’immagine. Non stupisce quindi che alcune acetaie storiche abbiano come clienti famiglie reali ed attori di Hollywood, che acquistano intere batterie di botticelle per riceverne ogni anno il prezioso nettare.
Marta Geri

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