La governance del rischio

23 dicembre 2020

Dal nord-ovest delle Alpi a Crotone, fino alla Sardegna, l’autunno è stato nuovamente un susseguirsi di disastri. E sarà così anche nel futuro prossimo. Una dura verità con la quale fare i conti poiché gli eventi estremi, a causa della crisi climatica, aumenteranno perlomeno in frequenza, se non di intensità. Il problema della governance di questi terribili accadimenti è enorme e richiede grandi capacità di intervento su molteplici piani. Attualmente però la realtà è un’altra: il giorno dopo la tragedia ci si riduce al consueto susseguirsi di richieste di denaro da parte di governatori e enti locali, per poi dimenticare tutto fino al successivo disastro. E’ vero che i fondi sono indispensabili, tuttavia siamo sicuri che il rincorrerli ad ogni emergenza costituisca l’unico obiettivo di senso?

Molto spesso con lo scopo di ricostruire come prima, come se nulla fosse accaduto. Si sente parlare di piste da sci e relativi impianti cancellati dalla recente alluvione nel nord-ovest, da ricostruire dove nevicherà sempre meno. Il meccanismo perverso della rincorsa ai fondi post-catastrofe non è per niente risolutivo. Perlomeno inadeguato, quando non unicamente utile a soddisfare le pressanti richieste dell’elettorato di riferimento. Non è affatto raro che una volta ottenuti i fondi si riesca a spenderli. Per troppa burocrazia, o più banalmente per l’oggettiva impossibilità dei singoli Comuni, soprattutto quelli piccoli, ad affrontare interventi complessi. Ci si riempie la bocca con parole come “manutenzione”, “tenuta idrologica”, senza conoscerne appieno il significato e le potenzialità. Utili e importanti se attuate adeguatamente, tuttavia parziali. La pianificazione di bacino e con essa quella territoriale sono di fatto le misure di prevenzione più efficaci, anche se non risolutive (esiste sempre un “rischio residuo”), contro i pericoli naturali. “Uso del suolo come difesa” ci esortava il pianificatore Giuliano Cannata. In due modi almeno: uno quello che mette in correlazione le aree di “rischio passivo” ovvero soggette a frane o ad alluvione e quelle di “rischio attivo”, del cui uso dipende quella concentrazione di deflussi superficiali che porta alla piena o alla frana più a valle. Ad esempio nel caso di un’alluvione il criterio fondamentale per un minor “rischio attivo” è quello del “rallentamento del deflusso” ovvero la riduzione della portata. I parametri che contano sono: la presenza di copertura forestale, la densità della rete di drenaggio, la capacità di ritenzione e di infiltrazione, la topografia e l’esposizione. Nel concetto di uso del suolo rientra anche quello di manutenzione che non significa però scavare i poveri alvei. Tranne in casi eccezionali e in situazioni puntiformi si tratta di interventi inutili, o peggio, dannosi. Piuttosto è importante intervenire con processi di rinaturalizzazione idrologica dei bacini e geomorfologica dei versanti da gestire con interventi pianificati, mettendo in campo un pool di competenze costituito da geologi, forestali, ecologi, ingegneri, urbanisti e agronomi. Non servono nuove leggi regionali sulla difesa del suolo. Come rivendicano da tempo gli ambientalisti, è indispensabile rinforzare le Autorità di distretto, portandole a pieno organico e augurandoci che possano svolgere un ruolo più attivo, anche dal punto di vista degli aspetti gestionali, assumendosi la responsabilità nella promozione di interventi integrati sul territorio. Per troppo tempo gli alvei sono stati manomessi da progetti puntuali: accorciati, scavati, rettificati col risultato di assicurare forse protezione locale ma di aumentare la portata a valle. Senza contare il consumo di suolo: si è cementificato senza senso del limite, costruito dove non si doveva e non è finita. E’ indispensabile che per le aree dove le frane e le esondazioni si concentrano si rispettino i vincoli di inedificabilità e di non uso del terreno, anche attraverso espropri con indennizzi. Per questo la pianificazione dei Comuni deve essere vincolata dalle norme e prescrizioni cogenti dei piani delle Autorità di distretto.

Il Decreto Legge sulla difesa del suolo attualmente in preparazione lascia più di una preoccupazione poiché potrebbe contenere la delega ai Comuni da parte di alcune Regioni per la predisposizione e realizzazione degli interventi. Non si tratta di colpevolizzare la buona volontà dei sindaci. Essi come ben sappiamo non possiedono quasi mai le risorse tecniche necessarie e in molti casi nemmeno le conoscenze e competenze adeguate per scegliere il da farsi. Diverse sono le tipologie di misure di adattamento da conoscere e usare. E’ importante saper integrare le opzioni di adattamento come le ‘grigie’ (ossia soluzioni tecnologiche e ingegneristiche), le ‘verdi’ (ossia approcci basati sugli ecosistemi) e le ‘leggere’ (ossia approcci gestionali, giuridici e politici).Vanno messe in campo strategie intelligenti per affrontare le interconnessioni tra sistemi naturali e sociali, un approccio che preveda una gestione delle politiche ambientali su diversi livelli politici e istituzionali cercando di gettare un ponte tra i differenti piani decisionali. La complessità e la multidimensionalità di questi temi sono tali che occorre costruire più conoscenza e consapevolezza sul da farsi. Ovunque occorre provare ad agire insieme al territorio affinché i cittadini acquisiscano nuove competenze e capacità nell’elaborare e concertare soluzioni sostenibili, per poi attuarle con determinazione. Occorrerà mettere in campo percorsi di pianificazione partecipata, attività di autoprotezione e responsabilità condivise tra le popolazioni interessate. La prospettiva della governance del rischio nelle diverse soluzioni dovrebbe consentire il coinvolgimento delle comunità, in modo che possano apprendere e comprendere l’importanza di tali interventi ai fini della prevenzione dei pericoli e, ove possibile, assumersi delle responsabilità nella gestione a lungo termine. Tali azioni potrebbero essere sviluppate attraverso programmi formativi e, in alcuni casi, tradotte in interventi manutentivi volontari. Le scelte di campo dovrebbero mirare a promuovere cooperazione e coordinamento tra istituzioni di differente livello, esperti e parti interessate che condividono gli stessi rischi. Ciò al fine di costruire quella rete di differenti attori, indispensabile per attuare il concetto di “governance del rischio”. Essa, infatti, costituisce uno strumento utile per aumentare la resilienza sia a livello individuale sia generale. Insieme alle istituzioni locali la popolazione deve essere aiutata a conoscere ed essere attrezzata a convivere e ad agire nel rischio. Per ottenere risultati efficaci occorre costruire un’interpretazione comune e uno scambio attivo tra esperti, tecnici e comunità. Si dovrà imparare a digerire ciò che è indigesto, ovvero imparare che l’adattamento ha chiaramente un costo, che deve essere confrontato con i benefici come il danno evitato o i vantaggi costruiti in seguito all’adozione e all’applicazione delle misure di adattamento, anche se severe.
Vanda Bonardo

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