In My Backyard

16 giugno 2010

L’Italia ha un passato comunale antico e glorioso che però ha lasciato anche un’eredità criticabile, nota come campanilismo. Tradotto in pratica questo vuol dire che la maggior parte degli ottomila e più Comuni italiani vuole avere, oltre al suo campanile, ciascuno la sua area industriale, la sua discarica, la sua scuola, il suo campo sportivo, magari il suo ospedale e così via e soprattutto vuole avere mano libera nell’uso del suolo. La cosa curiosa è che, mentre la nostra Costituzione è esplicita nel tutelare l’utilità sociale nei confronti dell’iniziativa economica privata, essa invece non pone limiti altrettanto espliciti agli egoismi comunali, anche quando sono in palese contrasto con l’interesse generale e locale di rendere efficienti i servizi, di limitare il consumo di suolo e la dispersione edilizia.
In molti casi questo elementare obiettivo si potrebbe raggiungere attraverso forme di cooperazione tra i comuni vicini, cioè con pratiche istituzionali che vanno sotto il nome di intercomunalità. Queste sono previste da vari strumenti normativi, ma la loro applicazione da noi è poco incentivata e assai poco praticata, essendo del tutto facoltativa. Cioè non è fatta dipendere dall’utilità sociale che ne potrebbe conseguire, ma solo da decisioni prese dai singoli Comuni in funzione dei loro propri interessi, sovente in contrasto con quelli dei Comuni confinanti.
Chi in Italia fa questi discorsi è solito citare come esempio la Francia, dove le pratiche di intercomunalità sono da tempo incentivate e quindi molto più estese ed efficaci: il 95% dei Comuni francesi fa parte di una comunità rurale o di una comunità urbana o di una agglomerazione. Ma le maggiori attese riguardavano la traduzione in legge di alcune disposizioni del grande progetto nazionale Grenelle de l’environnement  (Grenelle 2), tra cui l’obbligo di demandare a  piani intercomunali (PLU: plans locaux d’urbanisme) le decisioni relative a un uso cooperativo e consensuale del territorio. Inaspettatamente l’Assemblea nazionale il 5 maggio scorso ha respinto questa proposta del governo. Come dire che l’intercomunalità va bene, ma ogni comune deve poter disporre a suo piacere del proprio pezzetto di territorio. Le conseguenze? Un recente comunicato della CIPRA ci informa che nelle Alpi francesi del Nord, in seguito a questa cancellazione, è stata privata di ogni incisività la Direttiva per la pianificazione territoriale (il cui contenuto era coerente con la Convenzione delle Alpi), che diventa ora una semplice dichiarazione di intenti priva di effetti vincolanti sulla pianificazione comunale.
Per stare in Piemonte, uno dei motivi che ha rallentato e poi bloccato l’iter della nuova legge urbanistica è stato quello che essa prevedeva, a monte del piano operativo, affidato ai singoli Comuni, un piano strutturale intercomunale obbligatorio, col quale i Comuni limitrofi avrebbero dovuto accordarsi sulle decisioni di interesse comune.
Conclusione: l’autonomia dei Comuni è un valore fondamentale che va difeso, ma non lo si fa ostacolando la cooperazione intercomunale, che è invece la via maestra per la sopravvivenza dei tanti Comuni minori, tanto più in una situazione di crisi come l’attuale in cui l’unione fa la forza. Questo vale per la gestione in comune dei servizi, ma anche per un uso responsabile delle risorse territoriali, la cui gestione sarà più saggia ed efficiente, se sarà negoziata tra tutti Comuni interessati. Resta il problema di come identificarli, cioè di come circoscrivere gli ambiti dell’intercomunalità. Certamente essi non possono essere imposti da un ente sovraordinato, ma devono derivare da un accordo locale tra Comuni, la cui coerenza con piani e programmi di Provincia e Regione viene poi verificata in tavoli di co-pianificazione. Le esperienze di aggregazioni volontarie per la progettazione integrata (Prusst, Piani territoriali, PTI ecc) ci dicono che questa è una strada praticabile. Per esempio in montagna ambiti di intercomunalità ragionevoli potrebbero essere le valli. E le Comunità Montane? Qui il discorso sarebbe troppo lungo e lo lascio a chi vorrà intervenire nei prossimi numeri della newsletter su questi temi.
Giuseppe Dematteis

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