Il punto di vista del pastore
Ha piovuto, ne avevamo un immenso bisogno, qui ha piovuto “bene”, una pioggia leggera, che penetra nel terreno senza eroderlo, una pioggia che bagna. Purtroppo non dappertutto le cose stanno andando o sono andate così, stiamo vedendo immagini impressionanti di interi paesi allagati in Emilia Romagna, colline franate, strade invase da fango, terra, alberi.
Ho scritto la bozza di questo post mentre ero al pascolo nei giorni scorsi, con addosso ancora quel fremito di nervosismo che mi aveva lasciato un servizio del TG dove il giornalista parlava di “ritorno del freddo” nel mese di maggio, come se fosse anomalo o preoccupante il fatto che avesse nevicato in montagna o ci fossero temperature inferiori ai 25°C all’inizio del mese. Non è solo una questione personale, io patisco non poco il caldo, sto fisicamente male oltrepassata una certa soglia di calore (e umidità). Le temperature e le evoluzioni del clima stanno mettendo letteralmente in gioco il nostro mondo, il modo in cui viviamo, l’agricoltura, l’esistenza di molte specie vegetali e animali. Molta, troppa gente sembra non rendersene conto (o non volerlo fare). Non scomparirà la Terra, ovviamente, ma da sempre i cambiamenti del clima hanno avuto pesanti ripercussioni sugli esseri viventi che la abitano.
A inizio maggio sono bastate le poche piogge (poche rispetto al deficit idrico complessivo), spesso mal distribuite, per far sì che i negazionisti già se ne uscissero con battute ironiche sulla siccità. E a negare non è solo l’abitante delle città, che vive in un palazzo al sesto piano e vede intorno a sé solo asfalto e cemento, combattendo il clima con aria condizionata e riscaldamento centralizzato, vi è spesso anche chi abita in zone rurali, persino montane.
Ancor prima della siccità e del gran caldo dell’estate 2022, mi è capitato di occuparmi per lavoro di cambiamento climatico e di come questo viene percepito dagli allevatori che salgono in alpeggio. Un lavoro per conto dell’Institut Agricole Régional di Aosta, svolto tra il 2019 e il 2020, un incarico nell’ambito del progetto Interreg Pastoralp che mi ha portato ad occuparmi della percezione del cambiamento presso gli allevatori negli alpeggi all’interno del Parco Nazionale Gran Paradiso (lato piemontese e valdostano). Avevo già l’impressione di come il clima fosse un qualcosa a cui ci si “adattava”, ma da quel lavoro ho riportato l’impressione che nessuno guardasse oltre il proprio pascolo, facendo riferimento soprattutto al tempo atmosferico e non al clima. In generale comunque si riconosceva un aumento del caldo anche in quota e fenomeni più intensi (temporali, grandinate).
In seguito, partecipando a convegni o anche solo dalle “quattro chiacchiere” faccia a faccia o virtuali, ho continuato ad approfondire l’argomento. Quando mi è stato chiesto di partecipare, a Trento, al convegno dal titolo “La montagna che verrà” proprio in relazione alle variazioni climatiche, ho portato come argomento la consapevolezza. Anche se per me è assurdo che si possa negare l’evidenza, persino di fronte a dati scientifici che mostrano come le temperature medie stiano crescendo, come i ghiacciai si sciolgano e si ritirino, ogni giorno mi rendo conto di come questa consapevolezza sia persino inferiore a quanto mi sarei aspettata. Ho provato a ragionare sul perché, sempre riferendomi al mondo agricolo/zootecnico.
C’è chi nega che sia in corso un cambiamento climatico attaccandosi a generiche testimonianze del “è sempre successo”, ci sono stati periodi “caldi” anche in passato, c’erano stagioni di siccità anche anticamente, ecc. C’è poi chi riconosce la crisi in atto, ma rifiuta di sentirsene in qualche modo responsabile o di poter contribuire anche solo minimamente ad arrestare questo fenomeno attraverso comportamenti, tecniche lavorative, scelta di mezzi. Qui allora troviamo anche chi grida al complotto e tira in causa forze “oscure” che sarebbero all’opera per danneggiare proprio loro, per farli chiudere, per mettere in crisi la loro piccola azienda, attività, stalla. Purtroppo chi si appella a simili teorie non vuole nemmeno provare a ragionare su dati scientifici. C’è infine chi non vuole preoccuparsi e vive più che mai alla giornata, prendendo ciò che viene, nel bene e nel male. Se le cose andranno “peggio”, ci sarà qualcuno più in alto che dovrà pensarci, dovrà fare qualcosa, perché il problema “…è di tutti, non soltanto mio, quindi dovranno per forza aiutarci”.
Ma come mai proprio chi si trova tutti i giorni a dover fronteggiare i disagi e i problemi legati al cambiamento climatico ha questo atteggiamento? Da una parte credo sia una sorta di “strategia difensiva”. Il problema è talmente immenso, talmente impattante sulla nostra vita (presente e futura) che si cerca di ignorarlo il più a lungo possibile, per non doversi trovare a fronteggiare fin d’ora le conseguenze di questo fenomeno. E’ un po’ come per il “problema lupo”, dove non si prendono i cani da guardiania fino a quando non si è avuto un attacco o più di uno, perché si sa che questa “soluzione” comporta disagi e altri tipi di problemi. Se un agricoltore provasse a ragionare su cosa dovrebbe cambiare nel suo modo di vivere (ma soprattutto di lavorare) per adattarsi a un clima diverso da quello attuale ha di che non dormire la notte, tra fenomeni estremi (alluvioni, grandinate, tempeste di vento, gelate fuori stagione, periodi di caldo anomalo in pieno inverno), siccità prolungata, temperature oltre la media, e così via.
Buona parte del mondo agricolo tradizionale è fortemente legato alle… tradizioni, per l’appunto! Al “si è sempre fatto così”. Prima dell’arrivo di queste tanto sospirate piogge, pensavo al sistema utilizzato per gestire le vacche da latte in Valle d’Aosta: si munge al mattino prestissimo, si esce al pascolo mentre qualcuno pulisce le stalle (con l’acqua), si rientra in stalla, si munge 12 ore dopo la mungitura del mattino, si esce nuovamente al pascolo e le stalle vengono pulite, quindi la mandria rientra per la notte. Non è acqua “sprecata”, perché andrà nelle concimaie e verrà usata per la fertirrigazione a fine stagione, ma se dovesse essercene poca, la priorità sarebbero l’abbeverata degli animali, l’uso umano, la pulizia delle attrezzature e dei locali di caseificazione. Per tutti è semplicemente impossibile pensare di gestire diversamente le cose. Si fa così, punto. Non è questione di essere allarmisti, catastrofisti o altro, ma… secondo me bisogna iniziare a pensare ad altre vie, altri metodi, per non farsi trovare impreparati nel caso le cose dovessero peggiorare. Per esempio continuare con la progettazione (e realizzazione) di bacini idrici, anche adesso che ha piovuto. Perché l’acqua la trattieni quando c’è, per usarla poi quando manca.
L’altro motivo che spinge gli allevatori a “negare” secondo me è il fatto che fin troppo spesso troviamo l’allevamento indicato come “causa” del riscaldamento globale, senza che vengano fatte le dovute distinzioni tra gli allevamenti intensivi su vasta scala e le nostre piccole, piccolissime realtà, con stalle di 40, 50, 100 o anche 200 vacche, pascolate per più di quattro o cinque mesi all’anno, come minimo, e nei restanti mesi nutrite a fieno, spesso autoprodotto o comunque in gran parte di provenienza locale. E’ ovvio che, se davvero il cambiamento climatico ha un’origine antropica, non siamo “noi piccoli allevatori” a impattare sul clima, o comunque il nostro impatto è infinitesimo persino rispetto ad altre realtà. Ma invece di argomentare con ragionamenti fondati si nega, si guarda altrove, nascondendo la testa sotto la sabbia, anche se un anno il fieno è scarso per la siccità, anche se un altro costa caro acquistarlo perché le pianure sono state sommerse da un’alluvione, anche se arrivano nuovi insetti, nuove patologie legate al caldo a causarti problemi con gli animali.
Soluzioni? Prendere coscienza del problema, indipendentemente dalle sue origini (è causa dell’uomo, dell’inquinamento, è un fenomeno che avverrebbe comunque?) è già un primo passo. Poi si deve, secondo me, iniziare a ragionare dal basso su come potersi adattare, per quanto possibile, ai cambiamenti. C’è qualcosa che possiamo fare noi, senza aspettare decisioni, suggerimenti e aiuti dall’alto? A tal proposito, possiamo anche scegliere di farci rappresentare da chi ha recepito il problema e cerca di affrontarlo nelle sedi che gli competono.
Marzia Verona
Tratto dal blog di Marzia Verona “Di terre, pietre, erbe, bestie e persone”