Corta ma buona

1 giugno 2012

La filiera corta per i prodotti alimentari non ha lo stesso peso e lo stesso significato ovunque. Quando si parla di territori montani, realizzare una filiera, cioè costruire alleanze di produttori, ristoratori, abitanti e sistema turistico, può voler dire unica vera risorsa, opportunità di lavoro, strumento di conservazione e cura del territorio. Per comprendere un ragionamento di questo tipo, e considerare la gastronomia uno degli attori che possono seriamente contribuire allo sviluppo di un territorio, è necessario affrontarla con un approccio multidisciplinare e non limitarsi a una semplice valutazione qualitativa “buono-non buono”, perché nel concetto di qualità deve rientrare anche l’attenzione all’ambiente e alle persone che contribuiscono alla lavorazione del prodotto.

Una produzione casearia, per fare un esempio facilmente riconducibile alla montagna, se fatta rispettando il delicato equilibrio tra un territorio e le sue tradizioni, sapendosi adattare a ciò che offre il progresso senza stravolgerne l’essenza, rappresenta un modello di gestione in grado di produrre economia, conservare un territorio, definire un’identità.
Sono considerazioni immediate che però richiedono consapevolezza nella gestione del limite e del contesto di produzione, e proprio questa consapevolezza è quella che latita quando del  prodotto alimentare si considerano prevalentemente le potenzialità di un marchio o di una fama riconosciuta, applicandovi logiche di produzione industriale standardizzate, che poi difficilmente possono coniugarsi con un territorio montano e le sue complessità.
La storia del Presidio del bitto storico è emblematica di come la scelta di difendere una tecnica di produzione antica, la quale prevede la lavorazione del latte crudo nei calecc (millenarie costruzioni in pietra che proteggono la zona di caseificazione), il pascolo turnato, l’utilizzo di una percentuale di latte di capra orobica, il divieto nell’utilizzo di fermenti e mangimi e l’utilizzo dell’area di produzione storica, sia una scelta impegnativa, ma che oggi sta consentendo ai produttori che se ne sono fatti portavoce di commercializzare meglio il loro prodotto, rispetto a chi ha fatto scelte apparentemente più comode, e mantenere in vita saperi, pascoli e percorsi che altrimenti sarebbero irrimediabilmente andati perduti.
Il nocciolo centrale di questa scelta è stato rifiutare l’allargamento dell’area di produzione prevista dalla Dop, che ha compreso anche alpeggi in cui non era mai stato prodotto il bitto, per sfruttarne il nome, e successivamente la possibilità di usare fermenti nella caseificazione e di alimentare le vacche in alpeggio con mangimi. Rifiutare queste condizioni e quindi uscire dalla Dop è costato anni fa ai produttori dure battaglie anche legali e pesanti sanzioni da parte degli enti di controllo, i quali hanno applicato regolamenti secondo i quali i produttori storici delle valli, in cui da secoli si produce il bitto, non erano più autorizzati a usarne il nome.

Questa battaglia si è conclusa quando i produttori del Presidio hanno fondato un loro consorzio di tutela e sono rientrati nella Dop, ma fare questa scelta difficile ha innescato un meccanismo di solidarietà che ha dato vita a reti locali e non solo, e in questo Slow Food con il Presidio ha avuto un ruolo fondamentale, creando canali commerciali e promozionali che oggi permettono al bitto e alle valli di Gerola e Albaredo di essere conosciuti e apprezzati in tutto il mondo vendendo direttamente il loro formaggio.
La vicenda del bitto e delle sue valli è troppo lunga e complessa per poterne parlare in modo esaustivo in poche righe (chi volesse approfondire può leggere “I ribelli del bitto” scritto da Michele Corti e edito da Slow Food), ma è importante perché riassume dinamiche e problematiche che si incontrano comunemente quando ci si occupa di produzioni alimentari tradizionali e soprattutto insegna che certe scelte hanno un ruolo strategico nel far sì che l’immagine “da cartolina” dell’ambiente alpino non sia pura retorica, ma possa essere un elemento di identità e di creazione di economia e turismo anche per aree e vallate meno note. Per questo sono scelte che meritano di essere riconosciute, tutelate e valorizzate.
Mauro Pizzato

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