Comunità montane: rilancio o fine di un’esperienza?

15 dicembre 2010

Parliamo di stallo perché oggi la situazione, da noi in Piemonte (ma crediamo anche nelle altre zone montane italiane) ci sembra alquanto problematica: ridotte da 45 a 22, le Comunità montane piemontesi si sono viste cancellare l’annuale finanziamento erariale, diminuire quello regionale che probabilmente non basterà nemmeno a coprire il costo dei complessivi 500 dipendenti, e danno un po’ l’impressione di essere in attesa di capire che ne sarà di loro…
È successo che, come sempre capita, tagli e sforbiciate, se non vere e proprie rasoiate, si sono abbattuti – in nome di presunte razionalizzazioni e discutibilissime riduzioni dei “costi della politica” – sul comparto più debole dell’organizzazione amministrativa del Paese, quello delle zone montane.
Diciamo questo perché non ci sembra razionale l’aver raggruppato in unica Comunità di oltre 40 Comuni (e quindi difficilmente governabile) le tre precedenti dell’Alta, della Bassa Valle di Susa e della Val Sangone, lasciando vivere in Canavese una piccolissima Comunità, per altro poco montana, di sei o sette Comuni. E si è ridotto il costo della politica segando i miseri gettoni degli amministratori comunitari, ma mantenendo – per esempio – quelli dei consiglieri circoscrizionali delle città.
Tutto è cominciato tre anni fa con il famoso libro “La casta” di Rizzo e Stella che, attaccando i costi della politica, cominciava nelle prime pagine proprio con le Comunità montane, citando il caso di un Comune posto a ben 39 metri sul livello del mare inserito in una Comunità montana pugliese.
Il grande successo mediatico del libro e la superficialità con cui spesso vengono affrontati i problemi hanno fatto sì che le Comunità montane passassero in brevissimo tempo da riconoscimenti ufficiali di “buon governo” a simbolo degli enti inutili e degli sprechi della politica. Ma chi legge le statistiche dell’ISTAT sulle spese degli Enti locali e sul tipo di azioni compiute? Se qualcuno volesse farlo potrebbe scoprire che gli interventi (inutili?) delle Comunità montane hanno sempre riguardato difesa del suolo, assetto idrogeologico e forestale, viabilità locale, agricoltura, prevenzione incendi boschivi, ecc.
Il linciaggio mediatico delle Comunità montane è stato facile, al di là della superficialità con cui spesso vengono affrontati i problemi, almeno per tre motivi: primo perché alcune di esse, bisogna riconoscerlo, avevano deluso le aspettative; secondo, perché si continuavano a inserire al loro interno Comuni di dubbia montanità; terzo, perché la montagna è debole. E la montagna è debole perché, pur occupando oltre il 50% del territorio nazionale, ha una popolazione scarsa e – con le attuali leggi elettorali – pochi rappresentanti: quanti deputati e senatori esprime la montagna italiana e quanti dei 60 consiglieri regionali piemontesi provengono da zone montane? La stessa UNCEM, cioè l’organizzazione nazionale degli enti montani (indubbiamente poveri) fondata nel 1952 su spinta fondamentale degli amministratori montani cuneesi, è oggi in difficoltà nella sua azione di rappresentanza, nei confronti delle “ricche” consorelle ANCI e UPI che agiscono rispettivamente a nome dei Comuni (soprattutto grandi) e delle Province…
Fatto sta che oggi, come dicevamo, le Comunità montane – pur essendo diventate ufficialmente “agenzie di sviluppo” per il loro territorio, cosa che potrebbe ipotizzarne il rilancio – sono in difficoltà, soprattutto economiche. Nate nel 1971 dopo anni di battaglie amministrative per il decentramento delle funzioni statali e per un’autonoma organizzazione democratica delle zone montane (non c’erano ancora le Regioni…), erano state concepite sull’esperienza maturata dai “Consigli di Valle”, il primo dei quali nacque nel 1946 in Valsesia, e su alcuni dei principi contenuti nella famosa “Carta di Chivasso” , firmata in piena clandestinità nel 1943.
Invece di accorpamenti forzati e tagli di spesa che lasciano il tempo che trovano (i costi della politica sono altri, e tutti lo sanno), forse ci sarebbero voluti un po’ più di coraggio politico per cancellare montanità fasulle e un po’ più di razionalità, ma di quella vera, non frutto di accordi di bottega partitica!
Sulle Comunità montane si erano poste molte speranze e noi che abbiamo partecipato attivamente alla loro creazione riteniamo che l’esperienza da esse maturata – malgrado qualche esempio negativo, dovuto agli uomini che le hanno amministrate – sia stata complessivamente positiva. Anche lo stesso Gian Antonio Stella, coautore del libro “La casta”, sul Corriere della Sera del 22 luglio scorso precisa che l’intenzione era quella di difendere la montagna vera contro gli abusi, mentre con i provvedimenti adottati si è fatto esattamente il contrario…
Il nostro parere è comunque che le Comunità montane potrebbero anche essere soppresse, considerandola un’esperienza ormai superata, ma a condizione, per il bene della montagna, di sostituirle con qualche altro tipo di aggregazione amministrativa che garantisca forme democratiche di rappresentanza e autonomia decisionale alle popolazioni montane.  Ma allora, perché buttare via con l’acqua sporca anche il bambino?
Vorremmo, in fondo, che non fosse vano ciò che uno dei firmatari della Carta di Chivasso, e cioè il martire valdostano Emilio Chanoux, scriveva nel suo opuscolo intitolato “Federalismo e Autonomie”: «I piccoli popoli delle Alpi pretendono di non essere schiacciati dal numero anche nell’amministrazione generale dello Stato, e di essere in grado di manifestare la loro volontà, come popoli organizzati, in seno alle assemblee maggiori nazionali.»
Franco Bertoglio

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