Di Beppe Dematteis
«la sociologie n’y suffit plus sans la géographie».
Michel Serres, Hominescences, Le Pommier 2001, Parigi
Il discorso corrente su cosa sia la montagna è stato a lungo dominato dalla visione oggettiva dei geografi (si veda ad esempio Le Alpi di Werner Blätzing, Bollati Boringhieri, 2005), rafforzata da definizioni istituzionali basate quasi unicamente sull’altimetria. Gli scienziati sociali (compresi alcuni geografi) hanno reagito a questa visione limitativa, definendo la montagna in termini di costruzione sociale.
Secondo me qualche buon motivo ce l’hanno, a patto di non dimenticare che le montagne sono lì da qualche milione di anni. Faccio un esempio. Nel libro a più voci La montagna con altri occhi curato da M. Albino e M. Varotto (ediz. People, Busto Arsizio, 2025) si critica giustamente la “dittatura dell’altimetria e della fisicità”, che riduce il fenomeno complesso della montanità alla montuosità. Cioè alle semplici conseguenze altimetriche del rilievo. Tuttavia mi pare eccessivo parlare di una “montuosità fisica (…) che non risulta mai essere fattore univoco e di per sé determinante della montanità” (corsivo mio), come si legge a p. 40. Infatti nello stesso libro quest’affermazione perentoria viene più volte smentita. Ad esempio a p. 23, dove si ammette che sono le differenze altimetriche ad attirare in montagna i turisti e varie manifestazioni che con la montanità hanno poco a che fare (pensate ad esempio alle corse automobilistiche). Altra marcia indietro la troviamo dove si dice: “l’essere montagna (…) ha un tratto fisiognomico connotante legato all’esercizio di un’agricoltura peculiare, specifica, le cui caratteristiche salienti sono state (e continuano in fondo ad essere) conseguenza diretta di ineludibili dati altimetrici, climatici e geologici” (pag. 64). Ciò vuol dire che questi dati, pur non essendo una condizione sufficiente a spiegare i caratteri dell’agricoltura montana, ne sono comunque una condizione necessaria. Quindi anche in questo, come in molti altri casi senza montuosità non ci sarebbe montanità. Ad esempio la varietà culturale delle popolazioni montane, che è il principale fattore della montanità, deriva da processi co-evolutivi di lunga durata storica con la varietà degli ambienti fisici locali. E ancora: senza neve e dislivelli non ci sarebbero gli sport invernali, che nel bene e nel male sono una componente moderna della montanità; senza il clima dei pascoli niente transumanza, niente formaggi d’alpeggio e così via.
In conclusione, come scrive il geografo Mauro Varotto nell’introduzione, bisogna “tornare a concepire la montagna prima di tutto come unione di montuosità e montanità” (p. 17). Un’unione, aggiungo io, che è generatrice perché, pur senza sottovalutare l’impronta delle società umane, l’utero (l’apparato fisico necessario per progettare e realizzare un futuro auspicabile) ce l’ha la montagna.