Sovranismo di paese/ambientalismo di città

10 gennaio 2020

Mercoledì. Sono a Bogotá. Apro il computer. Facebook mi informa di quell’altro mio fratello, che è stato premiato, in Campidoglio e con tutti gli onori, per la sua attività agricola di castanicoltore moderno, in perfetto equilibrio tra innovazione e tradizione. È un premio suo ed è un riconoscimento all’azione di chi a Viola Castello, come in (ormai poche) altre zone sulle Alpi e sugli Appennini, tenta di mantenere in piedi un delicato equilibrio tra uomo e ambiente. L’ecosistema dei castagneti, un sistema produttivo perfetto, ereditato dalle precedenti generazioni.
Martedì. Sempre attraverso il computer: Venezia allagata. Immagini apocalittiche. Don Desiderio Sandoval, caro amico e sergente della Policía Nacional, mi offre un café negro e tra le altre faccende commentiamo la cosa. «¿Venecia entonces está condenada?». Quien sabe. L’acqua alta, il cambio climatico, le buone vecchie conversazioni da café. Nella mia mente ho un’idea fissa ma non la esprimo. Porterebbe a un dibattito interessante, ma sono quasi le nove di mattina e ho altro da fare.
Giovedì. Mi telefonano da Viola. Una pattuglia della Polizia Locale (di quale ‘locus’ si tratti, non mi viene specificato) ha sorpreso un paio di familiari a bruciar foglie. Questo dei rangers è un flagello che, da un paio d’anni, puntualmente si verifica a novembre. Da quando la Regione Piemonte ha deciso che, per contrastare il dramma delle polveri sottili a Torino, nei mesi invernali è proibito bruciar foglie nei boschi del territorio regionale. Non li si vede, i rangers, ad agosto o settembre, quando il sottobosco è invaso da decine di pensionati urbani che si spingono verso l’alto per depredare funghi lasciando in cambio cartacce e lattine di Estathè: la dinamica di rapina centro-periferie è una dinamica antica, e il sistema economico in cui sguazziamo felici si basa esattamente sul suo oliato funzionamento.

Excursus storico: per lunghi secoli, la castanicoltura è stata un’attività fondamentale sulle montagne d’Italia. In maniera particolare, lo è stata per il Piemonte, che oggi è l’unica regione in controtendenza nella produzione di castagne: mentre altrove si è costretti a importare, il Piemonte segna un trend positivo. A causa delle sue caratteristiche, nessun tipo di fertilizzante, ma “semplice” cura del bosco e del sottobosco, la castanicoltura aveva l’importante effetto collaterale di manutenere enormi porzioni di territorio. Un territorio complesso e geologicamente irrequieto, come quello italiano, è stato progressivamente terrazzato, accudito, addomesticato. Attraverso i boschi trasformati in giardini, le acque penetravano nel terreno, senza scivolare a valle portandosi pezzi di montagna con sé. E i rami spezzati dall’inverno, trasformati in fascine, sarebbero serviti per scaldarsi nell’inverno successivo, o per alimentare, in autunno, gli essiccatoi.
Poi le industrie, la questione del “così va il mondo” e l’italianissima scelta di rincoglionire la popolazione fornendo a tutti un lavoro fisso hanno provocato il dramma. Il contadino è diventato operaio, e ogni sorta di visione autonoma ha iniziato ad essere considerata in maniera sospettosa. Don Camillo e Peppone sono risultati entrambi colpevoli nel processo: la democrazia cristiana con il suo assistenzialismo paternalista, il partito comunista con la logica dell’appiattimento di classe e del diktat sindacale. Nel frattempo la televisione ha messo tutti d’accordo ad allontanare ancora di più l’essere umano dall’aria fresca, dai pensieri limpidi della solitudine in uno spazio naturale e armonico, da un fiero esistere. E così oggi i giovani delle valli monregalesi assomigliano sempre più ai loro coetanei delle periferie urbane, che lamentano con rabbia l’assenza di un lavoro fisso, e presto voteranno partiti populisti perché gli stranieri ci portano via il lavoro, mentre tutt’intorno (letteralmente: tutt’intorno) i castagneti muoiono, soffocati dall’abbandono e dall’incuria, dalla follia di un’epoca malata che non ha saputo leggerne il valore.
E così, giovedì. Mi telefonano da Viola. Una pattuglia della Polizia Locale sta multando un paio di campesinos, con il subordinato imbarazzo che contraddistingue chi è lì per far rispettare la legge e non per elaborare un pensiero autonomo (“sa, io la capisco ma questo è il mio lavoro. E un lavoro fisso di questi tempi…”). Il giorno scelto da mio zio e sua moglie, che bruciano foglie con coscienza e rispetto da decenni (proprio in quel bosco in estate si organizza un festival spontaneo, il “Castagneto Acustico”, per sottolineare la ricerca estetica nel rapporto tra uomo e castagneto), non è casuale: il fondo è umido, è impossibile che il fuoco si propaghi. Venerdì è prevista neve, e se nevica sulle foglie poi sarà un problema. Se nevica sulle foglie, bisognerà rinviare tutto a marzo, anzi al primo aprile perché così dice la legge, ma a quel punto sarà un problema perché la neve avrà compresso le foglie al suolo, e tentare di raschiarle via sarà un lavoro infame. Ma soprattutto: ad accendere i fuochi ad aprile forse non si creeranno più problemi all’aria di Torino, ma certamente non si farà bene ai castagni, che alla fine dell’inverno spingono le prime gemme in fiore.
Mi telefonano da Viola perché, nel delicato equilibrio del castagneto, il mio ruolo è quello di trasferire il tutto sul piano del linguaggio. Da alcuni anni sto tentando di mettere insieme una narrazione (un film) che esplori il profondo universo simbolico della castanicoltura. Una pratica agricola che non è solo pratica agricola ma che comunque rimane l’unica e l’ultima, in Europa, realizzabile senza l’ausilio di alcun elemento chimico, pesticida e fertilizzante che sia. Un sistema di tutela ambientale che viene custodito e trasmesso di generazione in generazione (la vita dei castagni scorre su una scala temporale diversa rispetto a quella dell’uomo, e inevitabilmente chi innesta un albero oggi sa che saranno i suoi figli, e non lui, a beneficiare di questa azione), e che oggi si trova in profonda crisi, a causa dell’abbandono.
Pare incredibile ma nella complessità del mondo attuale i castagni hanno bisogno anche di questo: di un discorso che li spieghi, di un’immagine che li racconti. Perché altrimenti rimane solo il DGR 22-5139 della Regione Piemonte, che impedisce di bruciar foglie in montagna perché a Torino l’aria è sporca.

Ma nel frattempo: venerdì. È, per me, un giorno strano, che inizia all’Eldorado e finisce alla Malpensa. Un giorno di aeroporti, e quindi di alienazione, di notizie lette su uno schermo a cristalli liquidi per ingannare le attese. Ecco quindi la proposta di legge del Consiglio regionale recentemente eletto alla Regione Piemonte: una proposta di deroga al DGR 22-5139, di cui si parla da tempo, ma che nel frattempo è rimasta fumo nell’aria.
La metafora non è casuale. Fumo nell’aria: in quest’epoca in cui tutto (letteralmente: tutto) è divenuto un simulacro di realtà, in quest’epoca di realtà simulata, aumentata, virtuale, di hashtag e di Fridays for Future, i castagneti stanno realmente morendo, e di conseguenza (pare una connessione forzata, ma non lo è per nulla) Venezia soccomberà. Così come soccomberanno i terrazzamenti e i quattrocento scau ancora presenti sul territorio di Viola, che a loro modo sono la stessa testimonianza di quella ricerca di armonia e bellezza che ha reso l’Italia, prima di tutto, un’ideale sublime, lo stesso ideale a cui il sergente Desiderio Sandoval rende omaggio nel café del mattino.
E nella responsabilità del disastro, non si potrà non tenere conto della nostra posizione attuale, immaginandoci “innocenti” perché consapevoli e informati e coscienti e socialmente impegnati – al contrario, quindi, di “quegli altri”, rozzi, primitivi, ignoranti e buzzurri. I castagneti stanno morendo, i terrazzamenti si stanno disgregando, molti sentieri di montagna si avviano verso l’abbandono, ma le prospettive di azione e di reazione continuano a essere dettate da città mefistofeliche, avvelenate, stanche.
Ragazzi, al prossimo venerdì di Strike for future, anziché scioperare, venite a Viola a pulire i boschi. Accenderemo i fuochi, come si è sempre fatto, a meno che qualcuno di voi non sviluppi un sistema migliore per convertire i residui in sostanze nutritive per il sottobosco.
Sandro Bozzolo

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