Ripristinare più che costruire

23 dicembre 2020

L’esattore autunno ha già riscosso le prime rate della tassa idrogeologica che ogni anno parecchi italiani sono costretti a onorare in questa stagione. La montagna ha pagato come sempre la sua quota, localizzata quest’anno soprattutto nell’estremo nord-ovest. Le immagini del disastro causato delle onde di piena e dalle colate detritiche hanno fatto il giro del mondo. Soprattutto quelle che mostrano gli effetti catastrofici di urbanizzazioni sconsiderate, infrastrutture rigide aggrappate a pendii fragili, cataste di veicoli che rivelano ancora una volta come sia l’auto l’insidia maggiore per la vita umana. La vulnerabilità estrema del tessuto urbano è diventata evidente a partire alla fine del secolo scorso, ma la nostra memoria è corta e dimentica presto.
È tempo di riflettere, ancora una volta, sull’amaro destino di “sfasciume pendulo sul mare” che dipingeva più di un secolo fa Giustino Fortunato parlando del nostro paese. Una definizione ripresa da Piero Calamandrei, Manlio Rossi-Doria, Giorgio Bocca e molti altri ancora, fino ai giorni nostri. Non a caso era un testo in materia di economia e fiscalità (La questione meridionale e la riforma tributaria, 1904) che oggi definiremmo di governance, perché la questione idrogeologica è prima di tutto una questione sociale.
Dall’unità in poi, l’Italia ha vissuto 150 anni e più di promesse non mantenute né mantenibili: ha visto sorgere parecchie opere utili, e almeno altrettante meno utili. E molta ammuina. Per cui lo “sfasciume pendulo sul mare” è tuttora una definizione azzeccata.

Recovery fund
L’occasione del recovery fund è delicata. È una visione angelica che travaglia le notti insonni dei governanti in procinto di deciderne l’impiego; ma è anche un miraggio che lucida gli occhi dei grandi e piccoli furbetti da emergenza. Poiché il “fondo” è un debito per le prossime generazioni, un impiego scriteriato in materia di difesa del suolo sommerebbe debiti a debito: il lascito di nuovi danni e nuovi lutti per via di opere insufficienti, ridondanti, inutili, dannose. Da sempre, il pensiero italico sulla difesa del suolo va ai soldi: fondi, stanziamenti, denari; di cui quasi sempre si lamenta la mancanza o l’insufficienza. Come scrissi in Bombe d’Acqua, alluvioni d’Italia dall’unità al terzo millennio (Marsilio, 1917) più che l’esito di un pensiero debole, “il pensiero è stato assente. È subentrato solo il nulla, il disinteresse. Anzi, è rimasto solamente un interesse, preciso e assillante, l’ossessione di chi non sa che cosa dire: i soldi. Anzi, i soldi per fare le opere. Un pretesto famoso: tutto è questione dei soldi, colpa dei soldi, storia di soldi”.
Il ballo della rinascita sarà un valzer di grandi opere? Preoccupa la fretta. La necessità dell’urgenza potrebbe sovrastare la ragione dell’importanza, favorendo il ricorso ai famosi, seducenti, eccitanti “progetti nel cassetto”. L’ABC sembra caduta nell’oblio, inventariata tra le cose inutili. L’Analisi che confronta i Benefici con i Costi rimane uno dei caposaldi della normativa europea, ma dalle nostre parti è stata del tutto accantonata, primo obiettivo di deroga in caso di emergenza a favore di più alti e nobili criteri di scelta.
I soldi non sono inutili, anzi servono. Ma non vanno sprecati. E, da soli, non bastano.

Costruire o demolire?
Il rischio alluvionale è la composizione di tre fattori: la pericolosità, più o meno naturale, l’esposizione dei beni e dei patrimoni al rischio, e la vulnerabilità del territorio. La scienza insegna che bisogna agire contemporaneamente su questi tre fattori, tutti importanti allo stesso modo. Le politiche che hanno governato la questione idrogeologica italiana, hanno ignorato finora questa evidenza, privilegiando le opere di ingegneria finalizzate a diminuire la pericolosità. Per capire queste politiche bisogna, come sempre, seguire il profumo dei soldi, giacché questa scelta mette in moto risorse ben visibili e negoziabili, senza dimenticare i lati corruttivi che sono rese facilmente praticabili da queste stesse politiche.
Nel corso della mia esperienza pratica, il progetto più consapevole che ho seguito non è stato la costruzione di una diga, un argine, una cassa di espansione. Ma la demolizione di un grande edificio residenziale e di altre strutture in fregio a un torrente asservito a tre ponti – l’uno stradale, l’altro ferroviario, il terzo pedonale ma sedicente romano – nel cui letto transitavano due grandi oleodotti, scaricava le acque una centrale termica, giaceva un intrico di infrastrutture di servizio, dalle acque potabili ai reflui da depurare e i relativi scarichi, condotte gas ed elettriche. Grazie all’abnegazione di un collega locale, l’ingegnere Giovanni Ciarlo presidente del Vado Football Club 1913, riuscimmo a trasformare un agglomerato indecoroso in un piccolissimo parco fluviale, trasformando un paesaggio imbarazzante in una piacevole oasi alla foce del torrente Quiliano.
Assieme a una effettiva riduzione del consumo di suolo, bisogna delocalizzare gli elementi a rischio tutte le volte che questi ultimi diventano indifendibili con misure strutturali. E il recovery fund può diventare il mezzo per realizzare questi propositi, nel quadro del great sustainable reset invocato dal World Economic Forum. Tutto ciò richiede però strumenti consapevoli di governo del territorio, un obiettivo particolarmente difficile in un paese dove gli edifici e la facoltà di edificare sono sacri doni, eterni e indiscutibili, e le concessioni demaniali un privilegio di casta. Ma non è concepibile che la comunità si rifiuti di trovare meccanismi idonei ed equi per praticare la delocalizzazione, perfino in casi tanto clamorosi quanto eclatanti.
Renzo Rosso

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