Mamma li turchi: migranti nelle terre alte

7 dicembre 2009

«Nei piccoli comuni delle zone marginali, come ad esempio nei comuni montani, si possono creare nicchie di immigrati stranieri che si sostituiscono allo svuotamento. Perché se c’è una nicchia ecologica, in cui si può vivere, lavorare e magari riattarsi una casa a poco prezzo, allora gli immigrati arrivano. Ma che cosa capita poi in questi comuni di montagna con i nuovi arrivi? Questa è una cosa che bisogna andare a scoprire sul posto».

Era dicembre del 2008 quando Francesco Ciafaloni, già ricercatore dell’Ires Lucia Morosini di Torino e profondo conoscitore delle dinamiche migratorie nazionali, ci segnalava la mancanza di studi approfonditi sul fenomeno dell’immigrazione nelle vallate alpine italiane. E nel giro di poco meno di due anni abbiamo incontrato e intervistato ben 14 immigrati membri di consistenti comunità straniere differenti, residenti in altrettante valli alpine, dal Piemonte alla Liguria, realizzando la ricerca, in via di pubblicazione, dal titolo “Mamma li turchi, migranti nelle terre alte”. Scoprendo che dei quattro milioni di stranieri residenti oggi in Italia (dati Dossier Caritas Migrantes 2009) alcuni, da poco più di cinque anni a questa parte, cominciano a indirizzarsi verso le vallate alpine in cerca di maggior tranquillità, minori spese e miglior qualità della vita.

I termini più ricorrenti, che prendendo a prestito una definizione cara alla tribù del web 2.0 potremmo chiamare “nuvola di tag”, sono sicuramente il “miglioramento” della qualità della vita, soprattutto per le famiglie immigrate con figli. Un “miglioramento” dettato da servizi più attenti alla persona, dalla scuola alle attività extrascolastiche gestite dai piccoli comuni alpini, comunità montane o consorzi pubblico privati. Il “miglioramento” è dettato anche da un rapporto più diretto con tali servizi, che permette alle “nuove famiglie”, per esempio, di accedere agli aiuti per la casa senza dover subire anni di attesa (vedi esempio della comunità rumena).

E proprio la “casa” è un altro termine ricorrente nelle interviste, uno dei motivi che spingono le famiglie immigrate a decidere di spostarsi in provincia. Perché nei piccoli comuni di bassa valle, oltre ad esserci ancora, in percentuale, più alloggi di edilizia pubblica a disposizione dei bisognosi rispetto alla città, è possibile investire nell’acquisto di un’immobile a prezzi accessibili agli immigrati (vedi esempio della comunità marocchina).

Vi è poi la questione “lavoro”, senza il quale non sarebbe possibile l’insediamento di nuove persone. In questo caso le valli alpine offrono una serie di impieghi interessanti per gli immigrati, che vanno dall’edilizia, ai servizi alla persona, ai lavori stagionali legati all’agricoltura, pastorizia o agli sport invernali, e all’impiego nelle numerose piccole fabbriche della bassa valle. Ma per quanto riguarda il lavoro, è la città che, per gli stranieri, non offre più quella maggior garanzia di impiego rispetto alla provincia, che l’aveva contraddistinta fino a una decina di anni fa. E la situazione di precariato, in città o in provincia, legata molto spesso all’intermediazione delle agenzie di lavoro in affitto, se per alcuni lavoratori può presentare un problema, per quelli di recente immigrazione diventa una risorsa, un’opportunità per entrare nel mondo del lavoro, con la speranza di arrivare un giorno al posto fisso. Precariato per precariato, meglio spostarsi nelle valli alpine dove la qualità della vita è superiore (vedi esempio della comunità moldava).

Anche la questione dei “figli” ritorna nelle interviste, come principale causa di radicamento delle “nuove famiglie” nel contesto territoriale e garanzia di continuità per la comunità locale, impegnata a investire sui nuovi concittadini attraverso la fornitura di servizi (vedi esempio comunità dominicana).

Infine, ma non per ordine di importanza, vi è la questione della “doppia cultura”, cioè il tentativo di superare la sensazione di spaesamento da parte degli immigrati, attraverso l’assimilazione della cultura ospite e la conservazione di quella d’origine. “I turchi” per esempio non si sentono ancora italiani, né più del loro paese natale, ma in linea di massima puntano sulla costruzione di una nuova vita nel paese ospite, senza dimenticare di passare cultura e valori d’origine ai loro figli che frequentano le scuole italiane (vedi esempio della comunità ivoriana).

La ricerca non si è limitata a una raccolta di testimonianze dei “nuovi” abitanti delle montagne, perché oltre alla testimonianza degli immigrati, ha voluto raccogliere anche il punto di vista di chi già risiedeva in quei territori. Chi ha vissuto il processo di arrivo e assimilazione “dal di fuori”. Sindaci, assistenti sociali e normali cittadini, hanno fornito una lettura del fenomeno da un’angolazione differente. Ad esempio analizzando il processo di cambiamento della domanda di servizi pubblici e la loro faticosa riorganizzazione, spesso ancora in atto e supportata da singoli comuni, consorzi, comunità montane e associazioni del privato sociale.
Maurizio Dematteis
Info: maurizio.dematteis@dislivelli.eu

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