Le guide alpine e la crisi

30 aprile 2013

Probabilmente le guide alpine sono la categoria che intrattiene il rapporto più stretto con i turisti della montagna. Dall’Ottocento, dai tempi dei viaggiatori romantici inglesi alla scoperta delle Alpi, il passo lento e cadenzato dell’ascensione e le permanenze in rifugio seduti attorno a un tavolo sono i momenti in cui le parole fluiscono libere, in cui avviene un interessante scambio di esperienze e di conoscenze che consentono alla guida di instaurare un rapporto intimo con i clienti. Non si può quindi prescindere dai professionisti alpini per cercare di tracciare un profilo del nuovo frequentatore della montagna, dei cambiamenti che si sono imposti in questi ultimi anni di crisi del modello fondato sul turismo di massa nei grandi centri turistici. Roby Boulard è un osservatore privilegiato in quanto presidente del Collegio piemontese delle Guide alpine e gestore di uno dei più amati e frequentati rifugi delle Alpi occidentali, il Willi Jervis in Val Pellice.
«Non si può negare che la crisi economica ha colpito anche noi. Ma, paradossalmente, in maniera più forte nei centri grandi, come per esempio ai piedi del Monte Rosa. Sono calati i clienti italiani, mentre sono leggermente cresciuti gli stranieri, e si è ridotta la richiesta di accompagnamenti individuali per l’ascensione singola alla Capanna Gnifetti perché il “prodotto Guida” resta oggettivamente piuttosto caro. Purtroppo non abbiamo margini per ridurre le tariffe e sempre più persone ritengono la spesa eccessiva. In quanto figlio di operai capisco bene la situazione».

L’analisi di Boulard si contraddistingue immediatamente per la lucidità nell’affrontare i problemi legati al momento di passaggio in cui viviamo. Con altrettanta sincerità individua gli elementi positivi.
«Il periodo estivo si è notevolmente accorciato poiché i clienti concentrano il tempo da dedicare alle salite; in questo modo le condizioni meteorologiche diventano ulteriormente cruciali. In compenso è aumentato il lavoro durante l’inverno grazie allo scialpinismo che è cresciuto in questi anni recenti. In particolare da parte degli stranieri che hanno il piacere di esplorare le nostre valli e si rivolgono alla guida per compiere percorsi insoliti e per conoscere meglio il territorio. Da questo punto di vista siamo in grado di offrire un valore aggiunto alla vacanza, anche se molto ancora deve essere migliorato nel modo di fare con il cliente e nella proposta del prodotto».
A livello politico non è esagerato definire la situazione piemontese la peggiore d’Italia dal momento che, a livello nazionale, il Collegio riceve dalla Regione i finanziamenti più esigui nell’ambito della formazione di nuove leve. Tuttavia una progettualità in chiave futura non manca.
«Allargando lo sguardo su altre realtà alpine, stiamo osservando il declino di un modello che negli anni scorsi spopolava nella vicina Francia, per esempio nel Briançonnais: i “luna park” alpini. Ti propongono attività molto attraenti come attraversare un ponte tibetano bendato o affrontare una ferrata in notturna, ma sono delle mode passeggere che non fanno affezionare il turista ai luoghi visitati. Penso che il nostro ruolo sia quello di trasmettere la cultura della montagna e la passione per le nostre valli in modo da convincere i clienti a tornare l’anno successivo. Se qualcuno mi chiede di salire il Monviso, durante la scalata gli devo saper raccontare che lì intorno ci sono altre cime e altre vie meno conosciute ma altrettanto prestigiose e interessanti per l’ambiente o per la storia».
La proverbiale arretratezza della cosiddetta montagna minore è certamente un limite, ma può rappresentare una risorsa nella direzione di un cambiamento dei gusti che si delinea a livello turistico.
«Nelle valli prive della grande montagna come il Cervino, il Monte Bianco o il Monte Rosa, siamo stati costretti a inventarci cose nuove, a differenziare la proposta. I clienti stranieri vengono per fare una vacanza, non per fare la montagna. A loro noi dobbiamo proporre una serie di attività con guida: innanzitutto l’ascensione, senza dimenticare la ferrata o il canyoning per quando il tempo è più incerto. Oppure la giornata in falesia, l’escursionismo e il trekking per chi si è portato dietro tutta la famiglia. O i corsi per bambini in alternativa all’Estate Ragazzi. Purtroppo mancano i centri e le strutture per indirizzare i turisti e, da parte nostra, non possiamo sobbarcarci anche il lavoro di marketing per il quale, oggettivamente, non abbiamo le competenze».
Tuttavia, nella propria attività, Boulard ha saputo ampliare il bacino dei clienti creando un felice connubio tra la sua attività di gestore di rifugio e di guida alpina.
«Ho trovato un ottimo canale di lavoro con il Belgio grazie a un amico che si è trasferito là. Insieme abbiamo approntato un modello molto funzionale, imitando i francesi dell’Ucpa (Associazione di unione dei centri sportivi in Plein Air, ndr), in cui proponiamo dei pacchetti completi anche dell’attrezzatura. Chi abita in quei paesi non può comprarsi tutto il materiale per usarlo solo una volta l’anno: gli costerebbe quanto l’intera settimana di vacanza. Siamo noi a fornire sci, scarponi e pelli per gli sci alpinisti, piccozze e ramponi per i ghiacciatori e corde, imbraghi e scarpette per gli scalatori. Loro devono soltanto preparare il bagaglio a mano e prenotare un low cost per Caselle. Certo, non riempiamo voli charter, ma diamo lavoro a 3 persone in inverno e a una decina in estate; di questi tempi non mi pare poco».
Simone Bobbio

Commenti: 1 commento

  1. Ugo Bottari scrive:

    D’accordo: le guide devono lavorare e vivere, ma proporsi come accompagnatori nell’eliski, sapendo di disturbare centinaia di scialpinisti e offrendo nel contempo una pratica sportiva del tutto diseducativa, non mi pare cosa buona. Come c’è un’etica della montagna ci deve anche essere, a mio parere, un’etica del comportamento delle guide e rifiutare questo tipo di lavoro.

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