L’acqua contesa

9 febbraio 2017

Per secoli, fino alla metà del 1800 l’acqua fu una risorsa, e qualche volta un problema, soprattutto valligiano. I montanari ne beneficiavano a proprio piacimento e le norme ne favorivano una sostanziale deregolamentazione. Già nel Trecento, i diritti sulle acque delle Valli di Lanzo erano di pertinenza della marchesa Margherita di Savoia che lasciò traccia del rilascio di agevolazioni e privilegi relativi alla Stura. Alla sua morte il conte Amedeo VI che le succedette, attestò il libero uso di tutte le acque del territorio ai suoi abitanti, cui era consentita la possibilità di costruire mulini, di effettuare derivazioni per l’irrigazione, per l’uso domestico o per l’abbeveraggio del bestiame senza che fosse dovuto in cambio alcun compenso. Analoghe conferme si ebbero ancora nel 1621, quando i rappresentanti dei Comuni delle valli di Tesso e Stura facenti parte del Marchesato di Lanzo, ottennero vitali e significative concessioni a favore delle popolazioni valligiane, con libertà estremamente innovative verso la collettività e nella regolamentazione dell’uso delle acque.

Lo spartiacque (è proprio il caso di dirlo) tra prima e dopo va fissato a fine Ottocento, quando l’interesse nei confronti delle acque alpestri assunse un rilievo per certi versi smisurato. Non si trattava più di sostenere la schiva e modesta quotidianità degli ignari autoctoni aggrappati alle loro valli, ma si cominciava a calcolare la conversione di quello che era stato fino ad allora un impalpabile bene comune in risorsa economica per qualcuno. L’incremento demografico e l’espansione industriale delle città, infatti, richiedeva esponenzialmente un crescente utilizzo di acqua potabile e di elettricità.
Nel 1896 i comuni delle valli scesero sul piede di guerra dopo che un decreto aveva rigettato le opposizioni delle amministrazioni locali e consentito un prelievo straordinario per alimentare due grandi cotonifici. Presto, con opere imponenti di derivazione, sorsero importanti centrali. Una di queste, quella di “Pian Funghera” (Germagnano), era una delle prime centrali elettriche italiane ed era stata realizzata nel 1898 dalla Elettricità Alta Italia, una Società divenuta in breve la maggiore del Paese grazie al monopolio della produzione e della distribuzione di energia in Piemonte.
In quell’ultimo scorcio di fine secolo la corsa ad accaparrarsi un bene così prezioso diventò spasmodica anche per risolvere l’incombente difficoltà idropotabile. Nonostante le polemiche e le opposizioni, nel 1896 il Consiglio comunale di Torino deliberò l’acquisto di alcuni terreni al Pian della Mussa nei quali sgorgavano alcune sorgenti cristalline. A dispetto dei contrasti insorti tra i comuni valligiani e la città, dei ricorsi e delle sentenze che ne seguirono, si arrivò nel volgere di qualche lustro ad accordi che permisero l’avvio di una serie di imponenti lavori e quella che venne definita “l’acqua ideale” raggiunse finalmente Torino nel 1922.

Dopo quasi cento anni, quell’interesse verso l’oro blu non è mai cessato ed anzi ha sempre trovato nuovi stimoli. Opere di rilievo, comprese alcune dighe, caratterizzano la valle di Viù (ai 2700 metri del Lago della Rossa sorge quella alla quota più elevata d’Italia) e a vecchie centrali idroelettriche, operanti giorno e notte sulle tre aste fluviali, se ne sono aggiunte di nuove di più piccola dimensione e cataste di progetti di moderne centraline giacciono in attesa di concessione. Quello che rimane incerto, e che in base alle sensazioni dei valligiani è a tutto vantaggio della pianura, è il peso del ritorno economico che tutta quest’acqua, turbinata per ottenere energia o bevuta nei rubinetti metropolitani, ha per la montagna. Ormai quasi del tutto venuto meno il discorso lavorativo, rimpiazzato da automazioni e controlli a distanza, canoni BIM e percentuali riconosciuti sugli introiti quali rimborsi per servizi ecosistemici sono ormai le poche entrate certe di enti territoriali ai quali, oltre all’acqua, è stato tolto tutto l’ossigeno per poter prosperare.
Non basta ad essi, il grande acquedotto costruito negli anni ’80 dalla Comunità Montana in Val Grande e che a sua volta alimenta con efficienza una parte della pianura torinese, a garantire un ritorno vantaggioso, ma insufficiente, ai territori che l’hanno voluto. Così come non bastano quei pochi milioni di litri di acqua imbottigliata dalla Società acque Minerali Pian della Mussa per risollevare le sorti occupazionali ed economiche di una valle.

L’orgoglio per la propria acqua, così pura da essere sparata nello spazio per abbeverare gli astronauti della stazione spaziale internazionale, non cancella l’amarezza per quello che in tanti anni non è cambiato: il tentativo attuato dalla pianura a scapito dei territori marginali, di impossessarsi delle sorgenti, dei corsi d’acqua, della forza di gravità e, in special modo, del potere decisionale che ne regola l’utilizzo. L’acqua, difesa dai montanari coi denti e con gli avvocati, continua a dividere gli animi delle terre alte e di quelle basse. Ma, come diceva un vecchio valligiano, «se l’acqua dev’essere di tutti, allora è anche un po’ nostra». Quello che è difficile stabilire, è quali sono i parametri per giungere ad una pacifica soddisfazione tra le parti.
Gianni Castagneri, Assessore comune di Balme

Commenti: 1 commento

  1. manfrinato gabriella scrive:

    bravi…Gianni ,il Sindaco, Polly, Enea e tanti altri BALMESI che con la vostra tenacia e testimonianza difendete la vostra montagna…. avete un paradiso ……. io da 40 anni sono una vostra sgnura ( così ancora li chiamate i villeggianti) sono veneta e non rimpiango le famose Dolomiti… LA CIAMARELLA – BESSANESE IL TOVO, neppure il Tovetto non hanno rivali siatene orgogliosi…..
    grazie, che con i vostri sacrifici riuscite ancora a mantenere una montagna MONTAGNA……. Gabriella

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