La montagna che aiuta

9 dicembre 2016

Camminare sui sentieri, arrampicare in parete, dormire in rifugio: la Montagnaterapia ha fatto di queste semplici esperienze un’opportunità per quelle persone che si trovano ad affrontare salite più difficili nella vita. L’ambiente naturale, culturale e artificiale della montagna diventa setting di un percorso di cura, riabilitazione e re-inclusione relazionale che negli ultimi anni ha suscitato l’interesse di medici, operatori e gruppi di volontariato a livello nazionale e locale, tra cui il Club Alpino Italiano, diventato col tempo main partner della Rete Nazionale di Montagnaterapia. Gran parte delle esperienze si rivolge all’area delle psicosi, dei disturbi dell’umore e della personalità, delle dipendenze, a persone che hanno perso capacità relazionali/sociali e che si sono isolate per effetto della malattia. La joëlette, una speciale carrozzella da fuoristrada, assicura l’accesso alle alte quote anche alle persone con mobilità ridotta o in situazione di handicap. Attività che rientrano in questo percorso esperienziale sono state utilizzate anche nell’ambito delle malattie internistiche e oncologiche, sia con adulti sia con minori. Le proposte sfruttano le tante possibilità offerte dall’ambiente montano, spaziando dal trekking all’arrampicata sportiva, dall’alpinismo alla speleologia e fino agli sport invernali.
Dal 2009 anche la sezione di Torino del Cai collabora con alcuni centri e servizi delle Asl cittadine, associazioni, scuole e organizzazioni, coinvolte in un ricco programma di uscite sulle montagne cuneesi e torinesi, da affrontare muniti di scarponi oppure di racchette da neve. Ad animare le iniziative del gruppo “La montagna che aiuta” Ornella Giordana e Marco Battaìn, istruttori della Scuola di Escursionismo E. Mentigazzi.

«L’uscita in montagna – spiega Marco Battaìn, medico di famiglia – può costituire un’attività ristrutturante dell’Io attraverso la scoperta di sé e delle proprie possibilità, le relazioni, la condivisione di regole per il raggiungimento di una meta, una vetta o un rifugio e nell’affrontare gli ostacoli». A livello nazionale, sono diverse le realtà attive in questo campo: per facilitare la comunicazione e mettere a sistema i gruppi, l’Italia è stata suddivisa in nove macro-zone: Veneto-Friuli Venezia Giulia, Toscana, Emilia Romagna, Sud, Lazio e Centro Italia, Lombardia, Trentino Alto Adige, Liguria-Piemonte-Valle d’Aosta, Sardegna. Dal 2008 e ogni due anni il Convegno nazionale di Montagnaterapia raccoglie intorno a un tavolo i referenti della rete che nel mese di novembre si sono incontrati a Pordenone, cornice del quinto evento nazionale, intitolato “Sentieri di Salute: lo sguardo oltre”: l’occasione per approfondire la metodologia, scambiare esperienze e saperi, sviluppare strumenti di valutazione affidabili.
La montagna va affrontata senza improvvisazioni: serve un progetto chiaro, scelto in funzione delle potenzialità dei partecipanti. I percorsi vanno valutati e adattati per evitare che si instaurino situazioni di stress dovute al divario tra le possibilità individuali e la realtà con cui ci si confronta. «La montagna è un ambiente di senso – continua Ornella Giordana, anche lei proveniente dal settore medico sanitario –. Offre degli stimoli piuttosto forti, ma non mediati dalle relazioni sociali, un aspetto che spesso gli utenti del nostro percorso hanno come problematica: quello che si intrattiene con la natura è il rapporto più basico che esista».
La vetta, il rifugio, l’alpeggio, il pascolo sono luoghi di grande intensità evocativa e soprattutto spazi sgombri da relazioni temute.
Il gruppo e la fisicità sono strumenti fondamentali per le attività di Montagnaterapia. Alle uscite proposte dal Cai di Torino partecipano un massimo di sette utenti, un piccolo numero che assicura dinamiche relazionali efficaci. «Appartengono a una fascia di età molto ampia, che va dai venti ai settant’anni – spiegano gli istruttori del Cai –. Cerchiamo di fornire loro l’attrezzatura adatta ad affrontare l’uscita recuperando gusci, scarponcini, racchette da neve e bastoncini dismessi da amici o dai soci della sezione. Le Asl mettono poi a disposizione il mezzo per gli spostamenti verso le montagne, unica voce di spesa per le nostre attività». Del gruppo fanno parte anche gli operatori del servizio di provenienza, trait-d’union tra le esperienze vissute all’aperto e i luoghi istituzionali, e gli esperti della montagna. «Per gli utenti di questi gruppi rappresentiamo il reale: la nostra presenza è un primo passo importante nella lotta allo stigma – precisa Battaìn –. Le nostre azioni quotidiane, che spesso ci troviamo a condividere con gli utenti, segnano per loro uno sguardo fuori dal tunnel della malattia».
Oltre al “fare insieme”, è essenziale compiere un lavoro di progettazione ed elaborazione. «Il primo “passaggio in quota” – continua Battaìn, prendendo spunto dal nome del progetto che “La montagna che aiuta” ha attivato con l’Asl To1 – è l’adesione al gruppo: si tratta di una scelta importante, un grande passo di consapevolezza». Ogni uscita è preceduta da un incontro preliminare in cui chi dirigerà il gruppo è chiamato a presentare il percorso e fornire le informazioni utili allo svolgimento dell’escursione. «Questi momenti – continuano i referenti dell’iniziativa – sono l’occasione per gli operatori di cogliere eventuali paure e ansie degli utenti rispetto all’escursione e al luogo in cui si svolgerà, ma anche ricordi di vita passata legati alla frequentazione della montagna. Dopo la gita incontriamo nuovamente gli utenti e utilizziamo immagini o video della gita per stimolare la riflessione su ciò che si è visto e quanto è accaduto, sulle reazioni e sulle emozioni provate».

In montagna si cerca di stimolare l’autostima, il senso di autoefficacia e la capacità di “farcela”, ma si lavora anche sul controllo delle emozioni, sulla gestione della frustrazione e degli insuccessi sviluppando nuove competenze emotive nel far fronte a situazioni nuove e a volte critiche, come può essere la fatica fisica. La dimensione del gruppo facilita poi la socializzazione per la nascita di relazioni significative, incentrate sulla fiducia reciproca e sulla collaborazione. «A favorire quest’aspetto è in primo luogo la montagna – spiega Giordana –. Alcune attività incitano i partecipanti alla competizione, ad esempio il calcio con le sue regole. Invece, il gruppo della montagna è cooperativo: punta alla partecipazione e alla condivisione. Persone che normalmente vengono emarginate, sentono di essere parte attiva del gruppo: si tratta di una grande conquista. Quest’aspetto inclusivo ci ha da poco spinti ad attivare un percorso dedicato ai migranti ospiti sul territorio».
In quota la gerarchia si azzera, determinando una ristrutturazione dei ruoli: durante l’escursione abbiamo caldo o freddo allo stesso modo degli altri, fatichiamo in salita per il peso dello zaino, affrontiamo lo stesso percorso, aiutandoci vicendevolmente nei passaggi più difficili. «Poi, la montagna accetta tutti – continua Giordana –. Nelle prime uscite gli utenti si stupiscono dei saluti che ricevono sui sentieri da parte degli altri escursionisti: quella che è per noi una pratica scontata diventa attenzione, riconoscimento, affermazione di sé. Con i più appassionati stiamo lavorando sulla socializzazione all’interno del Cai: qualcuno è già diventato socio della sezione torinese».
Fuori dal contesto istituzionale si incoraggiano le piccole autonomie che si sviluppano già prima della partenza, ad esempio nella preparazione dello zaino e dell’attrezzatura.
«Ci si prepara alle uscite, si fa il passo e si valuta se si è riusciti nel proprio intento – afferma Battaìn –. Ogni iniziativa è un volano per qualcosa di nuovo: il raggiungimento di un obiettivo, come può essere la meta di un’uscita in montagna, favorisce l’empowerment delle persone nei gruppi di lavoro, incoraggiandole in altre piccole azioni quotidiane, ad esempio prendere il tram in autonomia».
La rete di Montagnaterapia non intende fermarsi alle uscite in giornata: tra i progetti più ambiziosi, la possibilità di creare in montagna un’opportunità lavorativa per gli utenti, istituendo delle borse lavoro nei rifugi oppure affidando ai gruppi la gestione di una struttura in quota.
In cordata con i loro accompagnatori, gli utenti hanno possibilità di sperimentare momenti di normalità, uscire per qualche ora dal tunnel della malattia e dagli spazi cittadini per capire, utilizzando le parole di un paziente sulla via del ritorno da un’escursione con Ornella e Marco, che «la montagna è la domenica della vita».
Daria Rabbia

Per saperne di più: lamontagnacheaiuta.caitorino.it

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