La mia casa è il tuo rifugio

3 ottobre 2016

Dopo aver recentemente ipotizzato di distribuire “a pioggia” gli stranieri su tutto il territorio nazionale (non più di 3 ogni 1.000 abitanti, secondo la proposta del ministro Alfano, vedi il precedente articolo), il governo italiano pensa oggi ad un commissario straordinario per i rifugiati: nel frattempo, si individuano alcune caserme dismesse (in diversi casi ubicate in zone prossime alle Alpi, tra cui Udine e Treviso), nelle quali trasferire gli stranieri che attualmente stazionano nei centri di accoglienza “temporanea”, allontanandoli dai grandi centri urbani, ma rinviando l’adozione di una politica volta alla reale inclusione abitativa nei centri minori, a partire da quelli montani. Sembrano dunque proseguire e accentuarsi una forma di intervento “emergenziale” e una gestione centralistica della questione migranti, lontana da quanto ci insegnano le buone pratiche alpine e appenniniche di inclusione territoriale, “dal basso” e diffusa, dei richiedenti asilo.
Intanto, nella vicina Austria (che in tema di rifugiati è da tempo sotto l’attenzione pubblica e mediatica, per la politica di forti restrizioni alla frontiera del Brennero – vedi l’articolo relativo), c’è chi apre invece la propria casa ai richiedenti asilo. Questo accade proprio in zone montane, e per nulla marginali. L’accoglienza domestica dei profughi non è una novità (cominciano ad esserci iniziative in questo senso anche nel nostro Paese) ma è poco nota e purtroppo non sembra interessare molto i media nazionali. Particolarmente significativo e degno di essere divulgato appare allora il progetto “No Stranger Place”, realizzato dal fotografo Aubrey Wade (in partnership con Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) e finalizzato a raccontare, tramite immagini e testi narrativi (a cura di Nadine Alfa) le storie e la quotidianità di famiglie ospitanti e rifugiati, in alcuni Paesi del centro-nord Europa. Una di queste storie, che voglio raccontare qui brevemente, si svolge appunto in Austria, nella regione della Carinzia, al confine con la Slovenia (altro Paese che va mostrando grandi difficoltà nell’affrontare umanamente la questione dei profughi). Siamo nella Lavanttal, zona di media montagna, nota per la produzione di mele e di sidro, oltre che per un turismo slow e family friendly, attirato da conventi, castelli e da una vasta rete escursionistica. Qui, nei pressi del borgo di St. Paul, vive da alcuni mesi Nooria, profuga afgana di 36 anni, con sua figlia Aysu, di due anni d’età.

Nooria lavorava al suo Paese come ostetrica, nell’ambito di un programma di aiuto alle donne e ai bambini, gestito dalle Nazioni Unite, operando in zone dell’interno, perlopiù sotto il controllo dei Taliban. Rimasta incinta, è stata lasciata dal marito: questa condizione le avrebbe reso impossibile sia lavorare, sia tenere con sé la bambina, dal momento che in Afghanistan, sopratutto nelle zone rurali, non è tollerato che una donna viva da sola, senza un uomo. Nooria è stata costretta dunque ad emigrare e, dopo molte traversie lungo la “rotta balcanica”, è arrivata infine in Austria l’anno scorso, insieme alla sua bambina, con l’obiettivo di proseguire gli studi e di diventare medico ostetrico-ginecologo. In Carinzia, madre e figlia sono state per un periodo accolte in un centro per richiedenti asilo, finché, grazie all’intervento della Diaconia (una delle maggiori organizzazioni cristiane austriache), Nooria è stata messa in contatto con una giovane coppia della regione: Sabine e Dominique (montanari per nascita, con una bambina di un anno). I due erano da tempo desiderosi di fare qualcosa di concreto per aiutare i rifugiati, dopo tante brutte notizie viste alla televisione, e si erano dati disponibili ad offrire una camera nella propria abitazione, meglio se per una mamma con figli. In una bella casa rurale, in cima ad una collina, nel verde paesaggio montano della Lavanttal, Nooria e la piccola Aysu stanno oggi gradualmente cercando una nuova normalità, grazie alla risorsa eccezionale, quanto elementare, costituita da un tetto domestico e da una famiglia amica: la bambina frequenta l’asilo nido del paese, mentre la madre aiuta in cucina e nei lavori di casa, frequenta un corso di lingua tedesca e ha imparato a condurre la bicicletta (attività che le era interdetta in patria), guadagnando una libertà di movimento di cui non aveva mai goduto prima e spostandosi in modo sostenibile lungo la valle. Sulla collina, intorno a loro, vivono un’altra cinquantina di persone, tra famiglie, giovani e anziani: dopo un primo periodo di diffidenza, a causa anche di diffuse incomprensioni linguistiche e della evidente distanza culturale, i vicini di casa si sono attivati in senso comunitario, portando vestiti, giocattoli, offrendosi di accompagnare la bambina all’asilo o la madre in città. La paura dello straniero è velocemente passata e ha lasciato spazio al desiderio di conoscenza, alla volontà di inclusione: il rapporto personale ha consentito un avvicinamento veloce all’“Altro” e i legami comunitari pre-esistenti hanno fatto il resto.

La storia di Nooria e Aysu ci può condurre allora ad alcune semplici considerazioni: innanzitutto, evidenzia la forza delle relazioni personali, sviluppate in ambito famigliare e comunitario, rispetto all’inclusione sociale degli immigrati stranieri. La montagna, in Austria come in Italia, è ancora e spesso il luogo delle comunità, le cui risorse in termini di coesione e di solidarietà interna possono essere rivolte all’accoglienza, laddove si creino le condizioni idonee. E tra queste condizioni, oltre alla volontà di accogliere chi è in difficoltà (l’accoglienza non può essere imposta), appare essenziale la presenza di una istituzione (in questo caso, come in molti altri, una organizzazione religiosa) che operi come mediatrice tra chi intende ospitare lo straniero e quest’ultimo, facendo da ponte, offrendo garanzie, ponendo le basi per la costruzione di una fiducia reciproca tra ospitati e ospitanti. Altrettanto importante appare la risorsa costituita dalla casa: non un anonimo e sovraffollato centro di accoglienza, né tantomeno una caserma in disuso o uno spazio socialmente e urbanisticamente marginale, segno tangibile di una temporaneità di soggiorno tutta declinata in negativo. Piuttosto un luogo vissuto, quello domestico, dove l’essere ospiti (e quindi presenze temporanee per definizione) non significa rappresentare un problema o una emergenza, ma l’occasione di fruire di appoggio, di relazioni umane, di risorse materiali, a sostegno di una forma di empowerment, in ultima istanza. E l’occasione di arricchimento culturale e umano per la famiglia ospitante, nel contempo. Infine, la questione dei numeri: questo tipo di accoglienza si può pensare e gestire con numeri ridotti di persone, dal momento che non sono in molti, neppure in montagna, coloro i quali hanno spazi domestici in eccesso, da destinare agli stranieri (assai di più sono le case vuote, purtroppo), nè sono in tanti quelli che possono avere la disponibilità e la volontà di prendersi un impegno di questo genere. Quella domestica e in famiglia appare dunque un tipo di accoglienza da affiancare ad altre forme di insediamento dei rifugiati sul territorio, ma mostra grandi potenzialità in quanto esempio di apertura mentale, di sforzo concreto di inclusione sociale, di attivazione in prima persona per fare dello straniero un cittadino (e un montanaro) forse temporaneo, ma certo non sgradito.
Andrea Membretti

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