Incontro con Erri de Luca

2 novembre 2011

Arrampicare con un corpo che non conosciamo
Ho iniziato ad arrampicare tardi, intorno a trent’anni suonati, quando il mio corpo era già del tutto formato e deformato da altre attività. Mio padre mi  portava spesso da piccolo in montagna. Lui è stato alpino, e dall’esperienza maledetta della guerra si è portato dietro una specie di affetto, di intimità o di gratitudine verso quelle montagne che l’hanno salvato. Attraverso i suoi racconti ho assorbito la felicità di stare in montagna.
Quando ho iniziato ad arrampicare, avevo alle spalle vent’anni di attività di cantiere, sono stato operaio, e il mio fisico si era un po’ consumato, logorato e pareva poco resistente. Invece, con sorpresa, durante il gioco dell’arrampicata il corpo contraddiceva l’usura e guadagnava in efficienza e capacità di superare gli ostacoli. Mi sono chiesto come fa una persona a non sapere in che corpo abita, i suoi limiti, insomma. Perché in fondo il corpo più lo sforzi e più sposti un po’ i tuoi  limiti in avanti andando ancora un po’ oltre. C’è ancora una forza che non conosciamo quando siamo sfiniti. Abbiamo ereditato questo corpo, che è un manufatto antico, selezionato da un’infinità di generazioni che lo hanno messo alla prova in condizioni difficilissime di sopravvivenza, per questioni alimentari, igieniche, per carestie, guerre ed epidemie. Attraverso millenni questo corpo è stato selezionato arrivando a noi, una macchina immensa di cui conosciamo una minima parte. Questo fa parte della meravigliosa specie umana, specializzata in niente ma capace di adattarsi a tutto, latitudini e climi. Proprio in ordine e in obbedienza a quella ripetuta indicazione della divinità nella scrittura sacra, che continuamente ripete “crescetevi e moltiplicatevi” nel racconto del giorno sesto della creazione; questo viene ripetuto anche dopo il diluvio, così come dopo la Torre di Babele: “Sparpagliatevi, riempite il mondo, crescete”.
La nostra specie ha finalmente obbedito a questo ordine e ora riesce a vivere in tutte le condizioni.

La vetta non si conquista
La montagna nel passato non era considerata come attualmente, spesso era stata assegnata a qualche divinità che non andava disturbata. E’ solo di recente che la montagna è diventata un terreno praticabile per la specie umana. Quando tutte le terre erano state in qualche modo mappate, circoscritte, ci si avvia verso la montagna, l’ultimo paragrafo della geografia. E’ un noto cartografo che diede il nome all’Everest, un geodeta inglese, che misurò da lontano la vetta e la giudicò la più alta. L’alpinismo ha reso le montagne un luogo da poter scavalcare, attraversare, le ha rese intime alla specie umana.
A differenza di un’isola in cui si può abitare, sulla cima di una montagna bisogna stare poco, è un luogo inospitale, ogni alpinista sa che c’è una linea oltre alla quale è pericoloso stare, è la zona della morte, dai sette-ottomila metri in su. L’alpinista può essere indifferente alla vetta, quanti arrivano all’ultima cengia e si fermano? Spesso si può semplicemente decidere di superare la difficoltà e di fermarsi.
Non mi piace parlare di “conquista” quando si parla di montagna. Non c’è nessuna possibilità di misurare la nostra forza con l’immensità schiacciante delle forze di natura, siamo in inferiorità fisica. Quello che può succedere in una bella giornata, in cui le condizioni della montagna concedono un lasciapassare provvisorio, lo possiamo considerare al massimo un “pareggiare” non certo un “conquistare” la montagna, che rimanda invece ad un abuso di confidenza con l’immenso.

Mosè e la costituzione
A Mosé è successo il contrario rispetto alle persone che vanno quotidianamente in montagna, specialmente a quelli che vanno in Himalaya, che percorrono l’ultimo tratto senza pesi.
In cima Mosé si sovraccarica, deve portarsi giù i pietroni, così come la divinità desidera. E poi quando scende trova un’assemblea di circa un milione e mezzo di persone che lo aspetta: sono quelli che poi accetteranno di diventare il suo popolo. E Mosé, l’alpinista che aspettano, è visto come un semplice postino, un messaggero della divinità, che porta la notizia a una moltitudine di sbandati che scappano dalla schiavitù dell’Egitto e non sanno dove andare. La libertà è per loro una parola del tutto sconosciuta e la impareranno a loro spese. E’ uno sbaraglio spaventoso in cui si trovano, da una parte il Mar Rosso chiuso come una saracinesca alle spalle e dall’altra la vastità del deserto, un labirinto a cielo aperto. Questa è la loro libertà, un percorso intuito attraverso i segni celesti.
Sotto al Sinai decidono di accettare la legge e a quel punto la moltitudine di sbandati, che non sa dove andare, diventa popolo. Accettano così quella che è la loro Costituzione.
In fondo è successo qualcosa del genere anche a noi, popolo italiano, quando alla fine della guerra ci siamo trovati sbandati e sgangherati, nemici in guerra civile, divisi tra vincitori e vinti, tra repubblicani e monarchici. Improvvisamente quella Costituzione ha dato vita ad un popolo. Tutte le volte che modifichiamo, che intacchiamo quegli articoli di legge, stiamo disgregando la nostra unità, la nostra integrità di popolo.

La scorta di fortuna
Credo che non ci sia nessuna garanzia di incolumità in una giornata in montagna. Nessuna competenza, nessuna esperienza, nessuna attrezzatura garantiscono l’incolumità. Ho visto capitare incidenti in montagna a persone molto più capaci di me, e quindi so che la montagna ha un rischio che non può essere ammansito. C’è un margine di rischio che non possiamo cancellare. Le persone che hanno un incidente in montagna devono avere tutto il nostro rispetto. Semplicemente hanno in qualche modo improvvisamente terminato la loro scorta di fortuna. A differenza di quello che dice la stampa ufficiale non è questione di colpe di qualcosa o di qualcuno.
Gli alpinisti che muoiono anziani ammettono di aver avuto più fortuna di tanti più bravi di loro. Noi che continuiamo ad andare in montagna godiamo di una scorta di fortuna immeritata.

Vivere nel presente
Dalle bestie abbiamo da imparare. Vivono nel presente, sono più pronti di noi, sanno sempre cosa fare in un determinato momento. Noi uomini siamo più complicati, perché abbiamo più passato che incombe sul momento presente, accumuliamo notizie, competenze, esperienze e poi immaginiamo, progettiamo, prevediamo, ci accampiamo nel futuro. Siamo così schiacciati tra passato e futuro, che crediamo di conoscere e indovinare, e non viviamo il presente, anzi  inciampiamo nel presente. Le bestie hanno immediatezza nell’attimo, nel confronto dell’azione, quindi sanno vivere e morire meglio. Continuamente mi rammarico di non essere stato tempestivo, immagino che avrei potuto comportarmi diversamente e meglio. Non posso fare altro che prendere atto della mia impotenza. Sono approssimato per difetto, ecco.

La fluidità dello scrivere
Quando scrivo, so che quella pagina avrei potuto scriverla meglio. Quando scrivo una storia, invento poco, sono fatti che mi sono accaduti. Sto a vista, vado a tentoni, mi avvio e vado avanti. So più o meno che percorso devo seguire, la prima stesura è sicuramente a vista. Scrivo sempre solo sulla pagina destra del quaderno, quella sinistra la lascio libera perché quando ci ripasso sopra aggiungo qualcosa. Mi capita spesso quando sono in montagna che un passaggio, prima difficile, sulla via del ritorno mi sembri più facile, trovo magari un appiglio che non avevo visto. Ripassandoci sopra più volte aggiungo fluidità al movimento del mio corpo ed è così anche nel racconto. C’è sempre però il rischio di una caduta o del fallimento, così come la pagina di un libro, appena scritta, può essere cancellata.
Stefania Lusito

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