Il grido delle aree interne

5 febbraio 2019

La Strategia Nazionale per le Aree Interne (Snai) è una politica pubblica, lanciata nel 2013, che prende le mosse dal disegno di una nuova geografia del nostro paese. Questa mappa è stata pensata e proposta da un team di ricercatori, ed in seguito validata in un percorso di verifica e aggiustamento “aperto” alla partecipazione di un gran numero di policy makers, accademici, studiosi. Un set molto ricco di indicatori ha permesso di distribuire i comuni italiani lungo una scala, in base alla presenza e qualità dei servizi di base, che va da comuni “polo” e “poli intercomunali” (i centri dei servizi), passando da comuni di “cintura” e “intermedi”, fino ad arrivare a “periferici” e “ultraperifici”. Questa nuova classificazione ha permesso di mettere in luce le diversità dei nostri territori, tanto nelle caratteristiche fisiche ed economiche, ma soprattutto in quelle dell’erogazione dei servizi di cittadinanza, e di identificare quella parte consistente del paese che, non da oggi, perde popolazione a favore delle città, dei fondovalle, della costa, a causa della scarsità di opportunità di lavoro, della mancanza di servizi, della carenza di investimenti privati e pubblici, di crisi ambientali e di tenuta del territorio.

Quelle che definiamo come “Aree interne” sono quindi le zone geografiche del nostro paese più lontane da scuole, ospedali, stazioni, in termini di distanza e raggiungibilità, i cui cittadini godono meno degli “uguali diritti” sanciti dall’articolo 3 della Costituzione. Questi luoghi corrispondono a circa il 60% del territorio nazionale e sono abitati dal 22% della popolazione. Si tratta prevalentemente di regioni montuose il cui paesaggio porta le tracce di un secolare sfruttamento intensivo di acqua, risorse minerarie, patrimonio boschivo, e di un successivo abbandono, ma che conservano una gran quantità di ricchezze naturali e culturali, di risorse energetiche, di bellezze paesaggistiche, di persone che sanno viverle e vogliono continuare ad abitarle.
La Strategia Nazionale nasce per ridare centralità a queste aree, per ribadire che non si tratta di spazi residuali, di luoghi del passato, ma che molto del futuro del paese è legato al ripensamento di questi territori, che si presenta, sotto molti punti di vista, radicale. In effetti, l’economia di cui hanno vissuto per secoli gli abitanti di queste aree, oggi, semplicemente, sembra essere sparita. Le cose che avevano valore economico e significato per la vita di tutti i giorni, i borghi arroccati, i terrazzamenti, i luoghi di culto, le miniere, i mulini, i boschi, oggi lo hanno quasi del tutto perso, mentre nuovi valori d’uso stentano ad imporsi. Eppure, in un quadro che vede la questione energetica diventare strategica non solo in termini economici, ma acquisire una crescente rilevanza per gli equilibri e la stabilità politica dei paesi di tutto il mondo, e in un mercato internazionale che, seppur contraendosi, non smette di diversificarsi, il ritorno a queste aree, ricche di diversità, acquisisce nuova centralità. Lo sanno bene quei giovani che, a fronte di tanti abbandoni, oggi tornano a popolarle, trovandoci spazi per sperimentare, più liberamente, nuove forme di socialità, di sopravvivenza e di economia. Ed è proprio su queste sperimentazioni (o spesso delle semplici pratiche di sopravvivenza) che la Snai prova a far leva, nelle 48 aree “pilota” sulle quali ha operato fino ad ora, nella consapevolezza dei propri limiti e nella speranza che qualcuna di queste esperienze contenga “in nuce” una chiave per il futuro. (La legge di stabilità del 2018 ha previsto uno stanziamento che consentirà di estendere ad altre 700mila persone, distribuite in 24 aree interne del Paese, i benefici legati al percorso ad oggi già intrapreso da 48 aree; in totale, a Strategia conclusa, saranno 72 le aree interne coinvolte, per 1.077 Comuni e 2.072.718 abitanti. Fino ad oggi sono 34 le aree che sono arrivate ad esprimere in maniera strutturata le proprie intenzioni di cambiamento attraverso la redazione di un documento di strategia, e altre 14 sono in procinto di farlo. Altre 14 sono quelle che hanno concluso il proprio iter che sono entrate in fase di attuazione. Circa 560 milioni di euro sono i fondi impegnati, nelle prime 34 aree, tra nazionali e regionali).

Non è una operazione semplice, e per portare al centro del dibattito sul futuro del paese queste aree ci siamo dovuti confrontare anche con degli ostacoli di carattere culturale. Intanto, da almeno un ventennio a questa parte, abbiamo assistito ad una progressiva riduzione degli investimenti nei servizi pubblici di base e ad una loro concentrazione in porzioni sempre più piccole del territorio nazionale, essenzialmente nelle città, mentre nel resto del paese le politiche ordinarie venivano via via sostituite da interventi residuali, o “compensativi” dei mancati investimenti. La cultura che vede tutto il futuro nei centri urbani, e relega le aree interne al passato, è tuttora largamente egemone tanto nell’opinione pubblica che nelle istituzioni, anche se, dati alla mano, oggi possiamo affermare che questo approccio ha accresciuto le diseguaglianze territoriali, con l’abbandono di intere aree del paese per la carenza dei servizi e il degrado del territorio, e il mancato effetto “volano” della concentrazione degli investimenti nelle città.
Inoltre le politiche che, al di fuori delle città, privilegiano il trasferimento dei fondi ai privati piuttosto che gli investimenti in beni pubblici, hanno prodotto una cultura politica che si nutre di una visione “arcadica” e localistica del territorio, e che si esprime in forme di “sindacalismo territoriale” rivendicativo, che punta sistematicamente a compromessi a ribasso, nonché delle classi dirigenti locali composte da veri e propri rentiers del sottosviluppo. Infine, l’opinione pubblica e le stesse istituzioni sembrano del tutto inconsapevoli della crisi ambientale che vive il nostro paese, che invece nelle nostre aree è molto più tangibile. Né l’aumento della frequenza degli eventi estremi che impattano fortemente sulla tenuta del territorio (dalla tempesta Vaia che nell’autunno scorso ha abbattuto 425 km quadrati di alberi, come tre volte la provincia di Torino, mettendo in crisi l’intera filiera del legno, agli sciami sismici che colpiscono l’Appennino centrale con una cadenza che è difficile considerare straordinaria), né il riscaldamento che riduce le riserve idriche, che spinge la neve verso l’alto (lasciando a secco anche quella stessa economia dello sci che in molte aree aveva sostituito la vecchia economia della montagna), e che mette a rischio di inondazione intere parti del nostro paese rendendole ai limiti dell’abitabilità (basti pensare alla risalita del cuneo salino nel delta padano), hanno trovato rispondenza in una riflessione e in una azione pubblica volta ad affrontare strutturalmente e in maniera organica il tema della resilienza dei territori. Ed è probabilmente questo lo spazio nel quale ripensare il futuro delle nostre aree, per preservarne la ricchezza e promuovere un’economia che non sia solo estrattivista, aggredendo contemporaneamente la crisi sociale, economica e ambientale, attraverso nuove politiche di welfare, come investimento sui territori e per la formazione di nuove generazioni di “giardinieri del territorio”.

Ma per lavorare nel solco di un riequilibrio delle politiche pubbliche sul territorio e per ritrovare un “pensiero strategico” anche per queste aree del paese c’è la necessità di costruire “consenso” intorno ad un’azione come la Snai, e come le altre che per fortuna sembrano moltiplicarsi nel paese. La Strategia Nazionale Aree Interne, oltre ad operare direttamente sul territorio, ha contribuito non poco a diffondere una cultura anche nelle città, nella convinzione che se le aree interne vengono separate dal resto del paese, e trattate come isole, se ne accelererà la decadenza.
Filippo Tantillo (Coordinatore scientifico del team di supporto alla Strategia Nazionale Aree Interne)

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