Il buon pastore

27 febbraio 2014

Abbiamo facce che non conosciamo
ce le mettete voi in faccia pian piano.

Ligabue

Se lo stereotipo alpino fosse un quadro, da qualche parte nel disegno troverebbe senz’altro spazio il pastore in alpeggio. Sembra di vederlo (o di vederla!) stagliarsi contro il sole in una calda giornata d’estate: camicia a quadri, il cappello ben calcato sulla testa, il bastone in mano. Tutto intorno ci sarebbero pecore o vacche che brucano placide sparse su di un pascolo fiorito, qualche cane arruffato di guardia agli animali, e, per finire, il bianco riverbero dei panni stesi accanto a una modesta casetta. Per introdurre un po’ di movimento nella scena, la didascalia di questo ipotetico dipinto la lasciamo all’escursionista medio che lavora in città (nessuno si offenda: ci siamo dentro tutti e nessuno in particolare), che contempla la scena tergendosi il sudore dalla fronte e rivolgendo in cuor suo un ispirato pensiero al pastore: “Beato lui, che vita essenziale e tranquilla”.
Quanto e cosa c’è di vero in questa immagine tanto diffusa quanto ingenua del pastore? Abbiamo chiesto di aiutarci a decostruire lo stereotipo del pastore a una persona che sull’argomento spazia ormai con disinvoltura dalla teoria alla pratica. Si tratta della scrittrice e allevatrice, ideatrice e anima del blog pascolovagante.wordpress.com, Marzia Verona: «È vero che la vita in alpeggio è meno stressante (in parte) di quella che conduce il pastore nel resto dell’anno, quando magari deve spostarsi lungo le strade, deve cercare dove far pascolare le pecore ogni giorno (se pastore vagante) o deve fare tutti i lavori in stalla e tirare le reti nei prati (se stanziale). Però anche in alpe, specialmente da quando è tornato il lupo, lo stress c’è eccome, soprattutto di notte. Tutto l’anno e tutti i giorni però bisogna fare i conti con un orario di lavoro spietato: ci si alza presto e si va a letto sempre molto tardi. E si lavora con qualsiasi condizione meteorologica… e qualsiasi condizione di salute del pastore! In definitiva, a dispetto di quello che si può pensare, la vita del pastore ormai è spesso frenetica: fra il tempo passato negli uffici per le pratiche burocratiche da sbrigare, gli impegni costanti con gli animali, l’organizzazione della stagione di pascolo… sempre di corsa e mai un attimo di respiro, altro che tranquillità!».

Per lo più, se dobbiamo immaginarci un pastore, chissà perché ce lo immaginiamo al lavoro di giorno. Sarà perché a scuola ci hanno insegnato che sorge in sul primo albore/move la greggia oltre pel campo, e vede/greggi, fontane ed erbe;/Poi stanco si riposa in su la sera. Sorge spontaneo, tuttavia, il sospetto che Leopardi della realtà dei pastori, più o meno erranti e asiatici, ne sapesse ancora meno di me… Che cosa fa un pastore di notte?
«Dipende. Il pastore stanziale con le pecore in stalla di notte bene o male riposa. Il pastore vagante spesso dorme accanto al gregge e magari teme l’arrivo dei ladri… capita anche questo! In alpe, la notte è il momento in cui temi di più i lupi: allora sei in pensiero, speri sempre di aver fatto tornare tutti gli animali al recinto. Ma le ore della notte sono anche quelle che ti lasciano il tempo per rimuginare, per preoccuparti della pioggia o del meteo in generale. In ogni caso, il più delle volte sei comunque così stanco che… ti addormenti ancor prima di aver finito cena!».
Lo stereotipo del pastore è essenzialmente un’immagine diurna ed estiva: è come se per l’immaginario collettivo i pastori scomparissero ogni anno insieme ai loro animali con l’arrivo dell’autunno per ricomparire misteriosamente all’inizio dell’estate successiva. Dal momento che non sono più percepiti come parte del paesaggio alpino, sembra quasi che cessino di esistere. Ma fra una stagione in alpeggio e l’altra ci sono lunghi mesi poco conosciuti di attività: che cosa fanno in pastori in tutto questo tempo?
«Alcuni pastori stanno nella stalla, alcuni ci restano solo nella parte centrale dell’inverno, altri ancora non ci entrano mai. In stalla le pecore mangiano troppo e rendono troppo poco: con i costi che ha il foraggio non è conveniente. Così si sta all’aperto pascolando i prati il più possibile: solo quando non si può più fare diversamente si passa alla stalla, dove c’è da mettere il fieno nelle mangiatoie e la paglia per terra, bisogna togliere lo strame di tanto in tanto, controllare quotidianamente lo stato di salute degli animali, badare ai parti e molto altro ancora. Per i pastori vaganti, che tengono il gregge sempre all’aperto, la giornata è ancora più complessa: bisogna sia prendersi cura del gregge, con particolare attenzione per gli agnelli, che preoccuparsi di spostare in continuazione gli animali, dopo aver preso contatti con i proprietari dei fondi. Così vai a vedere dove passare, decidi la tua direzione cercando di mettere d’accordo il meteo e la volontà dei proprietari dei prati. Chi ha grosse greggi, per esempio di mille e più capi, le accompagna costantemente al pascolo. Con greggi più piccole si utilizzano le reti elettrificate per delimitare i pezzi da pascolare. Ci sono giorni in cui non hai grandi spostamenti da fare, ma procedi in prati adiacenti, però altre volte capita di spostarsi anche per diversi chilometri… questo è l’inverno!».

Riassumendo: quello del pastore è quindi un lavoro da cui non smonti mai del tutto, né di giorno né di notte, non in estate e nemmeno d’inverno. Senza giorni di festa né di malattia: al punto che i pastori sono sovente costretti a trascurare la loro salute perché “non c’è mai tempo”, vengono sempre prima gli animali ed è molto difficile contare su manodopera affidabile che, in caso di necessità, li possa sostituire al 100%. Senza certezze e con un bel numero di grattacapi da affrontare ogni giorno e “una tantum”, la vita dei pastori è un vero e proprio percorso a ostacoli:
«Oltre alla cura ordinaria e straordinaria degli animali, si devono affrontare i problemi creati da un gruppo eterogeneo di soggetti ostili, cui non sempre si riesce a dare un volto. C’è la burocrazia che non tiene conto delle modalità del lavoro del pastore, ci sono l’ottusità, i luoghi comuni e i pregiudizi delle persone, di chi non vuole le pecore “perché portano le malattie” o perché “portano le zecche” o la convinzione di alcuni contadini che le pecore “rovinano i prati”. Ci sono quegli animalisti che si indignano e chiamano le forze dell’ordine quando vedono un gregge all’aperto quando piove o quando nevica, oppure quando si imbattono in un pastore che compie determinati gesti funzionali al suo lavoro, ma che vengono scambiati per maltrattamento. Come scuoiare un agnello morto subito dopo il parto per far indossare la pelle a un agnello gemello la cui madre non ha abbastanza latte per allevarlo: in questo modo la pecora che ha perso il piccolo sente l’odore dell’altro agnello e lo adotta… ma vallo a spiegare a chi ha fretta di giudicare senza prendersi il tempo di capire! Possiamo aggiungere alla lista quei vegetariani/vegani che fanno le campagne contro il consumo di carne d’agnello, infarcendo la cosa con notizie false e accuse infamanti ai pastori. Ma anche il cemento che avanza e inghiotte i pascoli, il traffico lungo le strade, la concorrenza della carne che arriva dall’estero a prezzi stracciati, un sistema di leggi e tassazioni che erode fino all’osso il margine di guadagno sono nemici dei pastori… E come se non bastasse, la vita di chi porta al pascolo gli animali è complicata dai parchi fluviali che vietano il pascolamento lungo i fiumi, dal ritorno dei lupi e soprattutto da chi li difende a priori, senza voler conoscere davvero le ragioni e le esigenze dei pastori.
Qualche volta ci si mettono anche alcuni pastori che, nella “caccia” alle zone di pascolo, finiscono per scatenare delle vere e proprie guerre tra poveri, con il risultato di veder comparire le ordinanze di divieto di pascolo in alcuni comuni! Insomma, le difficoltà sono parecchie…».

Nell’immaginario collettivo il pastore in alpeggio, solo o con la famiglia, vive in uno splendido (o spaventoso, a seconda dei gusti) isolamento: le nuove tecnologie hanno cambiato qualcosa oppure no?
«Solo in parte. Perché molte volte in alpeggio il cellulare non prende e riesci a chiamare solo in determinati punti della montagna. Senza contare che esistono ancora moltissime realtà dove si arriva solo a piedi, non sempre c’è la luce elettrica, spesso mancano i servizi igienici e l’acqua calda. Insomma: gli alpeggi, nella maggior parte dei casi, sono davvero ancora un luogo isolato».
Spesso i pastori ce li immaginiamo come persone avanti con gli anni: ci sono e chi sono i giovani pastori?
«Sono una realtà: non saprei quantificarli, ma sono più numerosi di quello che si pensa. Ci sono sia i “nuovi pastori”, pastori per scelta, che provengono da un ambiente diverso da quello dell’allevamento e spesso puntano sull’azienda caprina con produzione casearia, che i pastori per tradizione, figli e nipoti di altri pastori…».
Prima narratrice, poi voce dei pastori e infine donna al pascolo tu stessa: grazie al tuo percorso eccezionale hai davvero una visione completa ed equilibrata del mondo della pastorizia, delle sue soddisfazioni e delle sue difficoltà. Chi erano per te i pastori prima di diventarlo tu stessa? Avevi anche tu un’idea un po’ astratta e superficiale del lavoro del pastore, oppure da sempre sei stata a contatto con i pastori e la loro realtà, quindi conoscevi già bene entrambi?
«Prima vedevo le greggi in montagna, come tutti: erano un bel guardare, ma non avevo particolare interesse per questo mondo. Ignoravo esistesse la realtà del pascolo vagante: è stata una scoperta a 360 gradi».
Come ti sei avvicinata e come sei stata conquistata da questo mestiere?
«È stato un caso. Durante un’attività di censimento delle strutture d’alpe ho scoperto il pascolo vagante e mi ha colpito sapere che ci fossero ancora, nel XXI secolo, pastori, famiglie intere che conducevano una vita nomade al seguito delle loro greggi, con percorsi dalla cima delle vallate alpine fino al Monferrato o anche oltre. Così ho iniziato a seguire alcuni pastori, ho preso ad andarli a trovare, a scattare foto e a farmi raccontare le loro storie, da cui è poi nato il mio libro Dove vai pastore? (Priuli&Verlucca, 2006). Poco per volta ho finito per contrarre anch’io la “malattia per le pecore”: andavo in bici e mi guardavo intorno valutando i pascoli… anche se non possedevo un animale! È stato quindi naturale innamorarmi di un pastore…».
Allora non è del tutto vero che le pecore non portano malattie: l’amore per il mestiere del pastore può essere contagioso! Riprendendo il titolo del tuo ultimo libro, “del tuo mestiere, ti piace tutto?”
«No. Sinceramente non potrei mai essere pastore come lo sono quelli che ci sono nati. Non riesco a rinunciare totalmente alla mia libertà per il gregge. Ho cambiato molti aspetti della mia vita, ma non potrei pensare di non potermi muovere assolutamente perché gli animali dipendono totalmente da me. È un mestiere che faccio insieme al mio compagno, ma il vero pastore è lui: io mi preoccupo troppo, vado in ansia se penso che non so dove portare il gregge a pascolare il giorno successivo, lui invece ha la giusta serenità per farlo, altrimenti… impazzirebbe! È un mestiere dove di certezze non ce ne sono mai ed è impossibile pianificare in modo certo.
Per il resto, non mi pesano il maltempo, lo “sporco”, l’isolamento e altre cose che “dal di fuori” si possono giudicare negativamente. La mia passione per questo mondo è diversa da quella dei veri pastori, ma comunque non potrei più pensare di vivere diversamente da come faccio oggi».
Pastori di ogni età, d’estate e d’inverno, di giorno e di notte, per nascita o per scelta: dalle parole di Marzia emerge il ritratto vivo di un mestiere che è anche uno stile di vita e una passione, un quadro la cui ricchezza e complessità sono impossibili da rinchiudere nello spazio angusto e troppo semplice di uno stereotipo.
Irene Borgna

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