Gran Sasso: quale futuro per il gigante dell’Appennino?

2 dicembre 2015

Quale modello di sviluppo? Questa domanda rimbalza da sud a nord della Penisola, interrogando governance e comunità. Quale modello di sviluppo si stia perseguendo è anche la grande incognita dell’indirizzo che stanno prendendo i piani di indirizzo economico-produttivo per la Regione Abruzzo. Dalle coste adriatiche al Gran Sasso, sono numerosi i progetti che sembrano contraddire gli ultimi decenni di promozione del territorio come regione-parco e la riconfigurazione delle attività produttive ad essa connesse. Dal piano di trivellazioni off-shore Ombrina, che insiste sulla costa dei trabocchi, all’elettrodotto Terna nel Chietino, fino al rilancio del turismo sciistico intensivo sui pendii di Campo Imperatore. Certamente il terremoto del 2009 e, più in generale la crisi economica, hanno reso più solide le ragioni di programmi di valorizzazione economica apparentemente più remunerativi, per quanto più “pesanti” nella mole di investimento e di più lungo periodo. Tuttavia, il rischio concreto è che non si possa più tornare indietro da scelte anticicliche rispetto alle indicazioni che arrivano dall’agenda internazionale in materia di sostenibilità e tutela ambientale.

Sgomberiamo subito il campo da una facile critica: le attività connesse alla tutela del territorio sono tutt’altro che poco remunerative sul piano economico. E’ ormai superato il concetto che vede nella salvaguardia e nel dispositivo del “parco”, la sola conservazione integrale dell’ambiente, anche se non possiamo non essere d’accordo con l’idea che vada invertita la rotta per un territorio montano già abbondantemente antropizzato come è l’Appennino abruzzese. Il punto è seguire coerentemente un obiettivo e investire risorse perché questo stesso obiettivo venga raggiunto al meglio.
Attualmente esistono nelle aree montane abruzzesi esperimenti virtuosi di recupero dei borghi e valorizzazione della cultura materiale, esperimenti che stanno in effetti raccogliendo visibilità e successo, aprendo la regione alle rotte del turismo leggero. Mancano invece i dispositivi organizzativi per rendere e ampliare la platea di quanti possono guardare all’Abruzzo come una possibile meta di viaggio e quindi, per i residenti, guardare alla tutela del territorio come un investimento. Basti pensare alla sentieristica e attrezzature fisse, come corde o vie ferrate, che nelle altitudini più importanti potrebbero agevolare un escursionismo alla portata di tanti e in piena sicurezza. La diffusione e manutenzione di questi semplici strumenti è oggi demandata in via esclusiva all’impegno volontario, senza un vero piano che coinvolga gli enti locali e le imprese, che traggono vantaggio dalla fruibilità delle montagne. Al contrario, si ritorna a parlare di investimenti negli impianti sciistici e nel loro indotto alberghiero, nel turismo “pesante” e nella declinazione più distorta possibile di “sviluppo”. Dal 2004, infatti, una delibera regionale ha infatti approvato un piano di sviluppo territoriale per le aree Monte Cristo e Scindarella, nel comprensorio di Campo Imperatore, dove si andrebbero a recuperare i vecchi impianti di risalita. Su questo punto, il recupero delle strutture pre-esistenti, la valutazione è tuttavia ambigua: da una parte sembra scongiurato il pericolo di ulteriori interventi di edificazione, ma dall’altro non si può non tenere conto dell’impatto che, a prescindere dalle nuove cubature, si avrebbe sull’area. Un recente documentario di Hannes Lang, Peak-Un mondo al limite (2011), mette in guardia dall’invasività che la pratica dello sci da discesa ha sulle alte quote: non solo in termini di infrastrutture, ma anche per garantirne apertura e quindi redditività dell’investimento. L’Appennino centrale è disseminato di aree per lo sci da discesa, o meglio delle loro macerie: funicolari, alberghi, centri residenziali realizzati nei decenni ’60-’80 e abbandonati con la riduzione delle precipitazioni nevose e l’abbattimento dei costi per i soggiorni nelle località dell’arco alpino.
Il punto è quindi capire quale modello di sviluppo si propone per l’Abruzzo e il Gran Sasso. Le voci critiche, ancora forse troppo sparse e isolate, sul piano di realizzazione per Monte Cristo-Scindarella cercano di identificare quindi una alternativa concreta. Enrico Ciccozzi, architetto paesaggista, accompagnatore di media montagna e attivista dei comitati aquilani per la ricostruzione post-sisma, propone il recupero e la valorizzazione del patrimonio agricolo e paesaggistico: «Il settore primario, insieme ad una quota di turismo consapevole e a nuove forme dell’abitare, potrebbe svolgere un ruolo trainante per le medie quote; resta da capire quale potrebbe essere la funzione di quelle più elevate. Si potrebbe pensare alla ricostruzione dell’Aquila partendo dal suo territorio, provando a guardarlo, ad esempio, in termini di bio-regione, immaginando una serie di progetti di chiusura di cicli (acque, energia, alimenti, rifiuti, mobilità). Le montagne sono i serbatoi di risorse che hanno alimentato per secoli la città e il fondovalle. I grandi altopiani carsici raccolgono e drenano un’immensa quantità d’acqua, i pascoli potrebbero essere riutilizzati, almeno in parte, per un allevamento di qualità. I boschi, che stanno aumentando sensibilmente, potrebbero incentivare un’economia del legno. Le vallecole a campo aperto, famose per la coltivazione di lenticchie, grano di solina, fagioli, ceci, zafferano potrebbero tornare a livelli di produzione accettabile». Anche l’associazione Mountain Wilderness si è schierata nel campo del No alle nuove infrastrutture sciistiche sul Gran Sasso. In un loro comunicato sottolineano come siano entrambi i versanti, aquilano e teramano, a essere esposti al rischio di aumento del carico di attrezzature e impianti: «Un insieme di interventi che rappresentano la negazione della stessa idea di area naturale protetta a causa dell’impatto paesaggistico, dell’impatto ambientale su habitat e specie prioritarie, del legame ad un modello di sviluppo fallimentare che non ha portato alcun reale vantaggio alle popolazioni locali, nonché degli innumerevoli costi di gestione sorretti da finanziamenti pubblici», si legge nel comunicato, nel quale fanno appello alle associazioni e a chi ha a cuore le montagne abruzzesi di farsi carico di questa battaglia.
Giovanni Pietrangeli

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