Governare le interdipendenze

10 gennaio 2020

Come Torino dimentica le sue montagne, così recitava il titolo di un bellissimo post di Fabrizio Goria pubblicato il 29 novembre 2019. Nello stesso giorno, usciva un mio analogo intervento – più “accademico” ma con il medesimo spirito – su Dialoghi urbani. Entrambi gli interventi, senza coordinamento pregresso e in verità senza che i due autori si conoscessero personalmente, sottolineavano che Torino ha dimenticato la sua vocazione di città alpina. Delle montagne ci si ricorda solo se non nevica durante la stagione invernale, in occasione di incendi o tragedie, o quando si corre per i giochi olimpici invernali. Qualche spazio se lo guadagna il folklore alpino e l’immancabile concerto di Ferragosto. Per il resto, poco o nulla.

Le battaglie di Uncem, l’impegno degli accademici e dei ricercatori che, dall’Università di Torino al Politecnico, presidiano il tema con grande risonanza nazionale (si veda A. De Rossi, – a cura di -, “Riabitare l’Italia”, Roma, Donzelli, 2018, anche al profilo Twitter @LRiabitare), la portata innovativa della Strategia Nazionale Aree Interne – il cui rafforzamento è uno dei punti cardine dell’azione del Ministro Provenzano – non diventano azione politica e di governo locale. Ciò, in verità, non solo o non tanto nel caso della città metro-montana di Torino, ma anche a livello di governo regionale, e non da oggi. Non è solo Torino a essersi dimenticata della sua vocazione alpina, ma è il Pie-monte ad aver fatto cadere nell’oblio politico le sue montagne.
Parlate con chi abita in montagna, andate ad ascoltare le voci dei vecchi e dei nuovi montanari che abitano le sfortunate montagne piemontesi, fuori dai luoghi delle grandi stazioni sciistiche e del turismo fast, parlate con i resistenti dell’Appennino piemontese tra Alessandria e Genova, ascoltate le proteste dei sindaci dei numerosissimi piccoli Comuni di montagna, o le lagnanze dei produttori lattiero-caseari di montagna sottoposti alle stesse regole dei grandi caseifici di pianura. Oppure analizzate l’assenza di incentivi e di programmi territoriali calibrati sulle esigenze di chi vive e lavora in montagna, o date rilevanza ai fallimenti sia del mercato che dello Stato nell’attrezzare i territori montani con quei beni collettivi che sono necessari allo sviluppo e alla coesione territoriale. Parlate con loro, come abbiamo fatto noi (si veda F. Barbera, R. Di Monaco, S. Pilutti, E. Sinibaldi, “Dall’alto in basso”, Torino, Rosenberg e Sellier, 2019) e capirete come la montagna, con veramente poche eccezioni, sia stata al margine dell’azione delle classi dirigenti piemontesi e delle politiche pubbliche regionali.

Come far voltare i Sindaci di pianura e le classi dirigenti verso la montagna? Come far volgere quello sguardo fissato sull’orizzonte della terra bassa e piatta con le spalle alla montagna, verso le opportunità che le terre alte rappresentano? Anzitutto, partiamo dai nomi: la città metropolitana non esiste. Fatta eccezione per Milano e Venezia, tutte le città metropolitane italiane sono costituite, in media, dal 50 per cento di Comuni definiti montani o parzialmente montani. Inoltre, in Italia circa 90 tra capoluoghi di provincia e comuni con più di 50.000 abitanti (di questi, 25 hanno più di 100.000 abitanti) distano meno di 15 km da un’area montana, configurando un potenziale sistema “metro-montano”. Un sistema ricco di flussi, processi e interdipendenze che vanno viste e governate. Dal punto di vista dei flussi e del loro governo (si veda Dematteis G., Corrado F., Di Gioia A., Durbiano E., 2018, “L’interscambio montagna-citta. Il caso della Citta metropolitana di Torino”, Milano, Franco Angeli), il rapporto montagna-città appare oggi sotto una luce molto diversa rispetto alla fine del secolo scorso. Esiste, in città, una domanda di montagna, come nel caso dei “nuovi montanari” (in gran parte giovani, spesso con titoli di studio medio-alti), la cui progettualità vocazionale va accompagnata e sostenuta con progetti di innovazione sociale (si veda anche). Fenomeni, questi, che disegnano un importante cambiamento socio-culturale ed economico interno all’universo urbano, in virtù del quale sono fasce di abitanti urbani a “cercare la montagna”. Oggi lasciare la città costa meno che in passato: il difficile mercato del lavoro, le barriere del mercato immobiliare, l’insalubrità dell’ambiente sono tutti elementi che tendono ad abbassare il costo-opportunità associato alla scelta di lasciare la città. Le montagne, poi, forniscono alle città beni e servizi intangibili di importanza collettiva, legati alla cura del territorio, al mantenimento dei paesaggi, alle esternalità positive della gestione agro-silvo-pastorale, alla riproduzione del policentrismo territoriale e della bio-diversità. Mettono inoltre a disposizione tradizionali e nuove fonti di energia, in un’epoca di forte richiesta urbana in questa direzione; e, non da ultimo, offrono spazi e occasioni per la domanda di turismo esperienziale (slow, dolce, consapevole, ecc.) che sempre più va connotando ampie fasce di popolazione urbana. Dall’altro lato, la città, ora come in passato, offre alla montagna importantissime risorse, senza le quali quest’ultima difficilmente sopravvivrebbe, ma anche in questo caso la natura e la qualità di quanto viene conferito sono decisamente mutati. La città mette sul piatto beni strumentali e di consumo non producibili localmente; servizi di interesse generale oggi sempre più accentrati a valle; visitatori, turisti e, più in generale, un ampio mercato per i beni prodotti in montagna; investimenti finanziari privati e fondi pubblici; know-how e innovazione. Si delinea dunque oggi una potenziale e nuova convergenza di interessi tra montagna e città/pianura, nell’ottica del reciproco vantaggio e delle potenzialità di innovazione place-based. Perché ciò sia possibile, però, occorre affrontare la questione in un’ottica di governo dei flussi e delle interdipendenze “metro-montane”, tramite una programmazione strategica di area vasta, non polarizzata sugli interessi, valori e priorità delle élite estrattive, tanto urbane quanto montane.
Filippo Barbera, Professore ordinario di Sociologia economica, Dipartimento CPS Università di Torino e affiliate presso il Collegio Carlo Alberto

Si veda anche: https://bit.ly/36hGE06

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