Di epidemie, villeggianti e seconde case

29 aprile 2020

Tra le tante contraddizioni che la recente pandemia ha messo in luce anche sul territorio alpino, un certo risalto è stato dato sui quotidiani ai comportamenti ritenuti poco responsabili di diversi villeggianti, che ci ha in qualche misura riportato alla memoria, come raccontata dalla più autorevole letteratura, quella “fuga dalla città” che si verificò durante la peste del 1630. Si sono infatti registrati casi di turisti che nel secondo fine settimana di marzo, allo scattare dei blocchi introdotti con il primo dei decreti ministeriali emanati per fare fronte all’epidemia, hanno preferito rimanere nelle proprie case di vacanza in montagna piuttosto che fare ritorno nelle rispettive città e paesi della pianura padana. Altri addirittura hanno tentato, a volte eludendo pure le restrizioni ancora più vincolanti messe in atto nel frattempo, di raggiungere le proprie abitazioni nelle valli già in fase di piena emergenza. In molti casi ciò ha portato a momenti di tensione tra popolazione locale e turisti, anche a causa di episodi di scarsa aderenza di questi ultimi alle prescrizioni emanate per garantire la sicurezza sul territorio: assembramenti inopportuni, “passeggiate” di gruppo, tentativi di raggiungere i comprensori sciistici d’oltralpe ancora aperti, ecc.
Per far fronte a questa situazione molti amministratori locali (come ad esempio in alta Valle Susa) hanno avviato censimenti degli occupanti delle seconde case per “invitarli” a fare ritorno presso la propria residenza abituale. Si è così creata in molte località una paradossale “caccia al turista” che si è dipanata in modi e sfumature differenti a seconda delle località: da situazioni di tensioni tra villeggianti e locali come a Courmayeur o a Sauze d’Oulx, dove il sindaco ha invocato l’intervento dell’esercito, fino a una convivenza più serena di Gressoney o Cogne, dove risiedono in genere villeggianti “fidelizzati”.

Lo scopo di questa breve riflessione non vuole essere certo quello di rimettere in discussione l’operato delle molte amministrazioni locali montane che si sono trovate loro malgrado a dover fare fronte ad una emergenza molto complessa, così come nemmeno quello di alimentare una stupida generalizzazione del turista “untore” e irresponsabile. Ricordiamo a tal proposito che fino a pochi giorni prima gli stessi villeggianti, additati come diffusori di malattia poi, erano ancora accolti a braccia aperte dagli operatori turistici, come si evince ad esempio dalle affermazioni del presidente della Regione Valle d’Aosta, che il 27 febbraio scorso – già ad una settimana dal primo caso conclamato di coronavirus in Italia – affermava: «La Valle d’Aosta rappresenta la destinazione ideale e sicura per chi vuole lasciarsi alle spalle le fobie da coronavirus: non abbiamo casi di contagio e il nostro protocollo di prevenzione è forse il migliore in Italia».
Ciò che invece è interessante notare è come dietro a certi comportamenti e situazioni si intravedono possibilità che possono aprire scenari e opportunità inedite.
Una condivisibile riflessione di Luca Giunti, apparsa lo scorso marzo sulla rivista Piemonte Parchi, mostra come tutto ciò sia di fatto il segnale che la montagna è ancora oggi considerata un rifugio, anche e soprattutto da chi vive in città. E se ne sono accorte addirittura le archistar Massimiliano Fuksas e Stefano Boeri, che dalle pagine di Repubblica hanno preconizzato un ritorno alle aree interne. Attenzione che è stata da subito rilanciata da Marco Bussone, Presidente Uncem, che ha sottolineato come in realtà sia da tempo che i territori montani chiedono sostegno alla creazione delle condizioni necessarie per vivere nei piccoli comuni: incentivi fiscali, azzeramento del digital divide, messa in sicurezza del territorio e trasporti.
Ad emergenza finita, visto l’inevitabile prolungarsi della fase di “convivenza” con il virus, gli abitanti delle seconde case potrebbero molto probabilmente rivalutare la propria disponibilità immobiliare in un luogo montano (rarefazione abitativa, aria buona, qualità ambientale, ecc.), anche in relazione alle nuove possibilità lavorative che un quasi certo rafforzamento del lavoro agile potrebbe garantire.
Diventa dunque necessario avviare un ripensamento generale sulla condizione di questi montanari part-time, anche attraverso l’introduzione di forme di “residenza ibrida” che permettano accessibilità e dunque supporto contributivo ai servizi di prossimità e alle comunità locali. Ecco come le attuali e giuste preoccupazioni delle amministrazioni montane per un eccessivo aggravio della sanità locale, potrebbero essere superate attraverso un necessario rafforzamento del sistema di servizi sanitari e assistenziali distrettuali, in linea con quel potenziamento che peraltro si spera possa diventare una linea strategica perseguita a livello nazionale, dopo che il recente dramma ha mostrato essere la via migliore per fronteggiare simili emergenze.
Uno degli insegnamenti di questa esperienza potrà dunque essere quello di avviare una ridefinizione delle modalità di reinsediamento diffuso – non più da intendersi solo come “periferico” – attraverso la quale mettere in atto nuove forme di urbanità. Non si auspica naturalmente un ritorno allo sprawl urbano, ma si guarda invece alla possibilità di rimettere in gioco il patrimonio esistente diffuso. È possibile che la vasta distesa di seconde case presenti nelle rinomate località del turismo alpino possa diventare a tutti gli effetti luogo di residenza part-time e non più solo contenitore di posti letto per i weekend sulla neve?
Il riuso del patrimonio edilizio delle seconde case potrebbe dunque tornare a svolgere un ruolo centrale per assorbire una potenziale nuova domanda di abitare al di fuori dei ritmi e delle stagionalità che coincidono con il mero sfruttamento turistico. Si tratta di cogliere l’opportunità offerta dalla contingenza attuale, di poter trasformare i posti letto “freddi” perlomeno in posti letto “tiepidi”: abitazioni occupate per un più elevato numero di giorni all’anno, per trascorrervi weekend allungati o soggiorni brevi ma con cadenza regolare in tutto l’arco dell’anno.
Anche gli alberghi e residence, diffusi capillarmente in molte delle località turistiche alpine, rappresentano in questo momento un’importante risorsa per chi, pur non essendo residente, voglia contribuire a combattere il virus mettendo in gioco le proprie competenze. La riconversione temporanea delle strutture ricettive in abitazioni temporanee a disposizione del personale medico-sanitario (come nel caso di un residence a Peschiera del Garda, o di Air BnB a Milano) potrebbe essere attuata anche nelle zone montane, agevolando le operazioni di assistenza domiciliare agli abitanti locali.
Anche ad emergenza finita, ci troveremo in ogni caso di fronte ad uno scenario lavorativo e turistico molto differente. Per coloro che possono praticare lo smart working, si alterneranno periodi più brevi di permanenza presso la sede lavorativa a giornate di lavoro da casa che, se unite al fine settimana, permetterebbero soggiorni prolungati ad esempio presso la seconda casa in montagna.
Inoltre un numero maggiore di proprietari rinnoverà l’interesse per la propria abitazione, riaprendo per periodi sempre più lunghi gli appartamenti in montagna, anche per via dell’impossibilità (almeno fino alla stabilizzazione della situazione internazionale) di recarsi in vacanza presso altro tipo di destinazioni turistiche, dando vita ad una sorta di “esotismo di prossimità” come ha sostenuto anche l’antropologo Annibale Salsa.
Crediamo sia importante quindi che i territori colgano queste opportunità come occasione da un lato per chiedere un rafforzamento dei propri sistemi di welfare e dall’altro per ricostruire una nuova abitabilità delle desolate “banlieues blanches”.
Roberto Dini, Silvia Favaro, Eleonora Gabbarini

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