Antidoti alla rinaturalizzazione della montagna

30 marzo 2011

Da tanti anni mi occupo di temi e problemi legati all’avvenire delle Alpi, sia in veste di studioso, sia per gli incarichi che ho ricoperto alla Presidenza del Gruppo di Lavoro “Popolazione e cultura” della Convenzione delle Alpi. Un impegno che ha portato all’approvazione della Dichiarazione votata dai Rappresentanti dei Governi degli otto Stati alpini riuniti nella IX Conferenza delle Alpi ad Alpbach (Austria). Ho altresì presieduto per sei anni il Club Alpino Italiano nazionale. Attualmente sono Presidente del Comitato Scientifico della Fondazione Accademia della Montagna del Trentino e Coordinatore scientifico del Dossier “Ripensare la montagna” nell’ambito della collana Economia Trentina della Camera di Commercio di Trento. Nell’ambito della redazione del Dossier ho voluto fortemente – fatto del tutto inusuale per una pubblicazione di area alpina orientale – chiamare a confronto esperti e studiosi del territorio piemontese, come Giuseppe Dematteis, Mariano Allocco, Enrico Camanni. Da tale impostazione si può comprendere come la mia concezione dei problemi della montagna faccia riferimento ad una visione “pan-alpina” che superi posizioni campanilistiche o localistiche e ciò alla luce degli inarrestabili processi di globalizzazione economica e di mondializzazione culturale. Sia come studioso che come uomo del territorio che ha vissuto in età giovanile sulle montagne a cavallo fra Piemonte e Liguria occidentale, a diretto contatto con un mondo rurale in crisi di spopolamento, sono sempre più convinto che le Alpi (soprattutto quelle “non firmate” secondo l’espressione di Mauro Corona), possano ritornare ad essere un “magnifico laboratorio” per mettere a punto idee e buone pratiche che abbiano come fine precipuo il ritorno degli uomini alla montagna. Un ritorno che deve coinvolgere in primis i giovani alla ricerca di un “ripensamento” e di una “rivisitazione” coraggiosa delle professioni tradizionali legate al settore primario. Troppa retorica si fa spesso sui giovani, ma poche sono le proposte concrete finalizzate a dare corpo e gambe ai progetti, alle idee, ai buoni proponimenti. Oggi, a differenza di alcuni decenni fa, la montagna incomincia ed essere vista con occhi nuovi e con nuove motivazioni. Non soltanto quale “terreno di gioco” turistico e sportivo, ma anche in veste di luogo di produzione. Le nuove tecnologie informatiche e telematiche sono in grado di rendere possibile in montagna ciò che fino a ieri sembrava impossibile. I tempi ed i metodi del modello industriale fordista non lasciavano scampo all’abbandono e le pianure diventavano la meta delle tante vie di fuga. Le prospettive della green economy non sono più sogni nel cassetto anche in presenza della crisi energetica e dell’affacciarsi di nuovi bisogni. Tali spinte motivazionali ed esigenziali, però, non possono essere lasciate allo spontaneismo o a forme di velleitarismo utopistico. Mentre negli anni cinquanta, sessanta e settanta del secolo scorso i territori di montagna non lasciavano più spiragli alla speranza – soprattutto nelle nostre valli sudoccidentali radiografate da NutoRevelli – oggi le cose possono cambiare. La scienza e la tecnologia mettono a disposizione nuove opportunità. Ma senza l’accompagnamento intenzionale della politica e senza la rielaborazione di nuovi modelli di governance si rischia di rimanere sospesi nell’iperuranio delle buone intenzioni. I montanari hanno colonizzato per 1500 anni le Alpi poiché, nei secoli del loro insediamento, i decisori politici del tempo si erano dimostrati particolarmente illuminati. Poi è arrivato il declino strutturale e congiunturale, unito al fatalismo, alla rassegnazione, alla disperazione. Farsi carico dei problemi delle terre alte è un dovere civile e morale. Ma le Alpi italiane non sono tutte uguali. Vi sono Regioni interamente intra-montane come il Trentino-Alto Adige e la Valle d’Aosta in cui la montagna è tutto e su quella vengono tarate le decisioni amministrative. In altre Regioni le montagne occupano spazi periferici come il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, l’entroterra ligure in cui la dominante geografica è la pianura, la bassa collina, la riviera. Spesso si tende ad attribuire eccessivo peso alla presenza di autonomie speciali percepite come l’unica ragione che fa la differenza. Certamente l’autonomia è importante e costituisce l’essenza identitaria di una tradizione che risale al Medioevo (gli Statuti della Valle Maira insegnano). Ma vi sono anche Regioni Autonome dell’arco alpino – come il Friuli – in cui la perifericità e la subalternità della montagna rispetto alla pianura non differisce molto da quella delle Regioni ordinarie. Per invertire la tendenza negativa occorre, a mio avviso, promuovere incentivi economici e fiscali finalizzati a far decollare le iniziative ed a farle vivere in forma non episodica. Occorre creare in montagna occasioni di crescita culturale e di ricerca finalizzata alle specificità della montagna. Fonti energetiche importanti come l’acqua ed il legno o vengono iper-sfruttate o sottovalutate. La situazione dei boschi nelle nostre Alpi non è delle migliori e, oltre a non fornire reddito, peggiora la qualità ambientale dei terreni. Una riforma importante sul piano politico-amministrativo dovrebbe essere quella fondiaria, finalizzata ad avviare un processo di accorpamento delle tante piccole proprietà frazionate. Parlo anche per esperienza personale di piccolo proprietario di terreni ultra spezzettati da un regime ereditario scoraggiante. Non voglio andare oltre per l’impossibilità di discutere direttamente le questioni sul tappeto. Desidero soltanto riaffermare il concetto che, senza un raccordo con le diverse (ma simili) realtà dell’arco alpino mediante un Patto unitario, si corre il rischio di una non augurabile ma incombente “rinaturalizzazione” o inselvatichimento dei residui spazi aperti della montagna.Con buona pace di un certo ambientalismo integralista e salottiero.
Annibale Salsa

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