Alternativa concreta

5 settembre 2017

Quindici anni fa, quando concludevo il libro su La nuova vita delle Alpi, mi pareva chiaro il punto di partenza: la civiltà tradizionale alpina era finita per sempre. Se si aveva il coraggio di partire da quel presupposto, tutt’altro che scontato dopo decenni di letture acritiche e agiografiche, restavano sostanzialmente tre possibilità per le Alpi: o tornavano a vivere in forme nuove, ancora in gran parte da inventare, oppure erano destinate a diventare il museo di se stesse o, peggio ancora, la periferia della città.
Le ultime due strade erano state rovinosamente percorse negli ultimi decenni del Novecento, al punto che i montanari – per soddisfare la nostalgia dei cittadini (o di se stessi?) – sembravano ormai disposti a recitare la parte del “buon selvaggio” al tempo di internet, o viceversa, sul versante opposto, si erano adeguati a fare i camerieri del modello consumistico nei suburbi d’alta quota, subendo la crisi di un sistema che nemmeno gli apparteneva, e ciò nonostante avevano creduto infallibile.
La terza via era assai meno evidente delle altre due, e tutta da sperimentare, anche se mi sembrava chiaro che la Convenzione delle Alpi avesse indicato il cammino, ponendosi come una profetica carta di principi sovrastatali e sovralocali cui gli stati e le comunità alpine avrebbero potuto ispirarsi, adattandoli alle singole situazioni. Era la via dello sviluppo sostenibile, un concetto così frusto e dialetticamente abusato da apparire quasi superato, obsoleto, eppure fondamentale se si provava a guardare alle Alpi come a un luogo da difendere e salvaguardare. In forme vive, non museali.

Oggi, dopo un quindicennio che ha marcato il dislivello culturale e amministrativo tra le Alpi tedesche e le “altre”, mi sembra che il cambiamento invocato non sia avvenuto, almeno sulle Alpi italiane, anche se la montagna è “tornata di moda” e un libro di montagna ha vinto il Premio Strega 2017. Purtroppo i giornali, il web e le televisioni continuano a inseguire il solito vecchio schema bipartito, con le nostalgiche Alpi della tradizione da un lato e le “moderne” Alpi del divertimento (consumo) urbano dall’altro. Sul piano delle politiche è cambiato altrettanto poco, perché se si escludono le regioni a statuto speciale non si nota alcun interessamento significativo dei governi regionali italiani per i destini delle loro montagne, tuttora considerate arretrate e perdenti, almeno dal punto di vista elettorale. E anche le regioni autonome a statuto speciale (Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige) sembrano purtroppo preda di vecchie logiche e frusti modelli di “sviluppo”, con l’aggravante che non ci sono più i soldi di una volta.
Invece tra le avanguardie si è mosso qualcosa, e lo dimostrano gli incoraggianti casi di buone pratiche rintracciabili sull’arco alpino. Oggi abbiamo indubbiamente gli strumenti teorici e i modelli pratici che servirebbero a progettare e costruire un futuro alternativo per le terre alte. Basterebbe volerlo, e smettere di parlarsi addosso.
Il caso Val Maira, pur tra le difficoltà, le discussioni, le derive, le correzioni e i ritorni, prova storicamente l’ultimo assunto. Conferma che non può esistere un futuro sostenibile per la montagna sulla quale è stato applicato un modello insostenibile, come per esempio nei grandi comprensori turistici invernali. I “poveri” paradossalmente possono ripartire, mentre i “ricchi” possono solo insistere su una strada sempre più tortuosa e pericolosa. La Val Maira e i Percorsi Occitani dimostrano che un progetto chiaro e lungimirante può portare lontano, mentre l’imitazione dei progetti perdenti – ancora la più in voga – crea solo illusioni di corto respiro, e dal danno senza fine.
Enrico Camanni

Commenti: 4 commenti

  1. Toni Farina scrive:

    Vero. Quel che accade nel globo terracqueo, certo non incoraggiante, pare abbia contagiato anche le Alpi. Che al posto di adempiere finalmente al loro compito di luogo-laboratorio paiono tornare indietro. Toranare a scelte vecchie, senza futuro, talvolta meramente speculative. Vedi la quantità ingente di risorse stanziate dalle regioni, autonome e non, per gli invasi per lo sci di pista. O il proliferare di piste inutili, dannose. Così, quando ci si imbatte in esempi lumionosi, o semi-luminosi, ci lasciamo illuminare nella speranza che anche lì la luce no si affievolisca.
    E allora un po’ di luce si accende non sulle Alpi ma sull’Appennino piemontese dove un giovane sindaco chiede l’istituzione di una parco. Evviva, parliamone, va incoraggiato

  2. alfio antiurti scrive:

    bravo Enrico. Saluti dalla Carnia che non riparte. Timilin

  3. Franco Puglia scrive:

    Un bello scritto ma mi sfugge quale sia la TERZA via descritta.
    Il mio pensiero è che oggi la montagna possa essere NON DIVERSA dalla pianura sotto il profilo delle variabili economiche, e profondamente diversa sotto il profilo ambientale.
    I cambiamenti epocali nel mondo dellaproduzione e delle comunicazioni consentono di fare oggi in ambiente alpino molte delle cose che si fanno abitualmente nelle pianure.
    Se invece confini l’ambiente alpino ad una vocazione solo turistica lo ghettizzi, e magari anche lo stravolgi.
    Il principio di fondo, valido per montagne e pianure dovrebbe essere quello di viverci, sviluppando attività economica, senza alterare apprezzabilmente l’ambiente.
    Non pretendo in maniera rigorosa, ma almeno tendenziale.

  4. Beppe Guzzeloni scrive:

    Carissimo Enrico, concordo. Credo e auspico che le scuole di alpinismo del CAI diventino portatrici di dialogo tra città e montagna, di scoperta e di proposta, dove “l’insegnamento” dell’alpinismo non sia una forma di consumo del territorio, ma di integrazione.
    Beppe di Alpiteam

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