Allevamenti e sfide del cambiamento climatico

23 dicembre 2020

Viene diffusamente affermato da esperti del campo che i ruminanti sono tra i maggiori responsabili del cambiamento climatico. Questo a causa delle emissioni di gas climalteranti, CO2 e metano, quest’ultimo con un effetto ventotto volte più potente dell’anidride carbonica nel trattenere le radiazioni. Si sta allo stesso tempo osservando la progressiva scomparsa di tante piccole realtà di allevamento montano e con esse di gran parte delle praterie alpine a favore del bosco d’invasione, fenomeno registrato dalla seconda metà del secolo scorso a seguito dell’abbandono da parte dell’uomo della montagna. Dagli anni ’40 del secolo scorso ad oggi la superficie boschiva è raddoppiata passando da 6 a 12 milioni di ettari (Rete Rurale 2014-20). Un fenomeno che sta veramente rappresentando la naturale riappropriazione della montagna verso un paesaggio originario? Si tratta davvero di un processo desiderabile, anche in termini di miglioramento di bilancio di carbonio? La previsione è ricavata da studi sull’evoluzione delle superfici pastorali alpine che deriva da elementi sul cambiamento d’uso e di copertura del suolo, impiegando sofisticati modelli (Land Use and Land Cover Change). Ci si riferisce alle variazioni dell’assetto strutturale del territorio e della sua copertura fisica anche per effetto dell’azione antropica e delle dinamiche ecologiche, regolate da componenti socioeconomiche e ambientali. Il Land Change Modeler, strumento di questa categoria, evidenzia una tendenza futura di espansione delle superfici forestali sia nelle Alpi che nell’Appennino. Questo si legherebbe tra l’altro all’abbandono delle pratiche di sfalcio per la produzione di foraggi dai prati e dell’utilizzo dei pascoli. Una proiezione che parte dagli anni ‘60 del secolo scorso, e che stima, in cento anni, sulle Alpi ma ancor di più sugli Appennini, un aumento di oltre il 60 % delle foreste, in particolare per l’incremento del bosco di neoformazione. Sono modelli che preoccupano anche per quello che sarà il destino di molte attività antropiche di montagna. Previsioni che spesso sottovalutano le variabili socioeconomiche, fondamentali per guidare un processo che sarebbe piuttosto da armonizzare con le attività di agricoltura e di allevamento.

Occorre tenere ben presente che gli effetti su vasta scala del cambiamento climatico e per gran parte degli ecosistemi, comportano sensibili perdite di biodiversità vegetale e animale. Potremmo pertanto dire che all’avanzata del bosco corrisponde un netto impoverimento del territorio montano. Razze locali, autoctone e resilienti, rischiano diffusamente l’estinzione proprio in questi territori. Una perdita ignorata, per dedicare maggiori attenzione all’espansione (incontrollata) di specie di interesse faunistico.
Animali domestici allevati da secoli, che grazie all’adattabilità all’ambiente, all’unicità genetica, al valore storico, culturale, ecologico, ambientale, paesaggistico sarebbero invece da salvaguardare. Non trascurando gli interessanti risvolti di carattere economico come la valorizzazione delle produzioni legate a queste razze.
Sempre al fine di una valutazione in tale ambito è assai utile la misurazione dell’LCA (il Life Cicle Assessment o valutazione del ciclo di vita) che consente di quantificare i potenziali impatti sull’ambiente e sulla salute umana. Attraverso di essa è possibile dimostrare che le attività pastorali sono in grado di incrementare la redditività e resilienza delle aziende. In recenti studi svolti nelle valli di Lanzo in provincia di Torino, sono stati messi a confronto i diversi impatti generati dai processi produttivi agro-zootecnici come contributo al climate change. I sistemi basati sull’alpeggio risultano nettamente vantaggiosi rispetto ai sistemi confinati (in stalla tutto l’anno), confermando l’importanza dell’adozione del pascolamento come mezzo per aumentare la sostenibilità dell’allevamento. Esistono tuttavia sull’arco alpino non sporadiche attività di allevamento che incidono pesantemente sul climate change, non tanto per la “fisiologica” produzione di metano conseguente al metabolismo degli erbivori, quanto piuttosto per le emissioni di anidride carbonica e di altri gas serra connesse alla produzione di mangimi, ai sistemi di trasporto e ad altri consumi energetici di questi sistemi. Di certo si tratta di modelli produttivi incoerenti, più simili alle realtà produttive di pianura, inadeguati e dannosi per la montagna. Gli allevatori di montagna, i pastori in particolare, con pratiche più o meno estensive, vengono frequentemente ignorati o penalizzati da considerazioni generiche sulle cause degli allevamenti del cambiamento climatico. In definitiva, la pesante e progressiva riduzione della presenza di attività condotte da allevatori e pastori ha portato alla perdita di estese superfici pastorali, una ricchezza capillarmente benefica per il territorio montano. La deruralizzazione ha causato allo stesso tempo molte criticità di stabilità idrogeologica e le conseguenze di questo si sono anche riflesse sui grandi centri urbani, più o meno a ridosso di queste realtà.
Occorre dunque non trascurare queste forme di allevamento pastorale, anche nelle loro forme più tradizionali, come la pastorizia, espressione millenaria di adattamento ad ambienti meno favoriti e più complessi. Si tratta di sistemi, pienamente multifunzionali, basati sull’utilizzo di risorse trofiche spontanee, alla base non solo della produzione di alimenti di particolare valore nutraceutico ma anche espressione di servizi ecosistemici essenziali per il nostro benessere. Il contesto attuale della drammatica pandemia sta spingendo forse a riscoprirli. Questo anche in termini economici e per un turismo consapevole, essendo ancora poco noti ad un pubblico ampio, piuttosto inebriato dall’avanzata della wilderness. L’approccio concettuale dei servizi ecosistemici è sicuramente un ottimo strumento per individuare, categorizzare, comparare, comunicare non solo gli impatti, ma anche i benefici privati e pubblici associati ai diversi sistemi di allevamento. In tale contesto appaiono assolutamente necessari interventi governativi di sostegno economico, al fine di favorire un corretto riconoscimento di buone pratiche fondamentali per la difesa degli ecosistemi fragili di aree montane e aree interne del nostro Paese.

Una recente tesi di ricerca sulla valutazione della percezione del cambiamento climatico da parte degli allevatori di montagna (in Valle d’Aosta) ne ha messo in luce la preoccupazione per gli effetti di impoverimento di risorse, custodite grazie ai saperi e alle pratiche tradizionali. In alcuni casi vengono anche riconosciuti sporadici aspetti “positivi” come l’allungamento della stagione di monticazione. Nello specifico il consumo idrico e il benessere degli animali sono risultati essere tra gli aspetti maggiormente influenzati al negativo dal cambiamento climatico. Preoccupante il trend di riduzione di richieste di premio sui pascoli e prato-pascoli, sintomo di un perdurante e aggravato sottoutilizzo e abbandono delle superfici pastorali.
L’opinione di molti stakeholders ha evidenziato tuttavia una necessità vitale derivante dai contributi europei per la sopravvivenza soprattutto di piccole aziende. “Piccolo è bello” era lo slogan di molte associazioni di allevatori di montagna in varie regioni montane europee. Le importanti problematiche legate all’applicazione (principalmente le macchinosità burocratiche ed il grave ritardo nei pagamenti) continuano tuttavia a determinare una “sfiducia” da parte degli utenti verso queste politiche di sostegno, con una conseguente perdita di coscienza del valore intrinseco ed economico delle misure stesse.
Si ripone quindi speranza di miglioramento in tal senso nelle prossime politiche nazionali e regionali, a partire dal prossimo PSR 2021-2027. Oltre ad arginare alcune problematiche relative alla marginalità degli ambienti montani, sarà necessario favorire le figure legate alle attività pastorali affinché grazie alle espressioni multifunzionali fornite consentano di mantenere l’integrità di questi ambienti, garantendone allo stesso tempo la sostenibilità. E questa deve essere una necessaria risposta anche per contribuire ad arginare le conseguenze del cambiamento climatico.
Luca Battaglini

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