10 anni di racconto della montagna. O forse no

29 settembre 2019

E’ passato un decennio dal 2009,  anno in cui abbiamo fondato l’Associazione Dislivelli. Era un anno di speranza in cui i media di tutto il mondo seguivano l’insediamento di  Barack Obama come 44º Presidente degli Stati Uniti, il primo afroamericano alla guida del Nord America. Ma anche l’anno in cui in Italia emergevano prepotenti le fragilità del territorio attraverso le cronache della terribile scossa di terremoto di magnitudo 6,3 che il 6 aprile si abbatté sulla Provincia dell’Aquila, causando 309 vittime, 1.500 feriti, 65.000 sfollati e il crollo di migliaia di edifici. Alla montagna, allora, venivano riservate le pagine interne dei giornali solo in caso di calamità naturali o incidenti alpinistici. E quell’estate, purtroppo, ce ne furono tanti: quaranta, che coinvolsero anche numerose guide e alpinisti esperti, quasi un morto al giorno. Poi più nulla, con l’autunno il territorio montano spariva dai radar dei mezzi di comunicazione nazionali per ricomparire solo sporadicamente: in occasione dell’apertura degli impianti di risalita in inverno, con “marchettoni” poco onorevoli per la professione, e con la caduta delle slavine che coinvolgevano qualche sci alpinista malcapitato o incosciente.
Sono passati dieci anni da allora, e l’immagine della montagna sui mezzi di comunicazione di massa non è cambiata di molto. Si continuano a narrare le tragedie o a magnificare le imprese degli impianti a fune per attirare turisti e contributi pubblici. Eppure nel corso di questi due lustri qualcosa è successo, il mondo si è trasformato. E con esso la montagna, che potrebbe tranquillamente diventare un tema di interesse anche per l’opinione pubblica nazionale, e tal volta lo è anche diventato, ma solo sporadicamente e senza una prospettiva definita.

Proviamo allora a scorrere alcune delle trasformazioni più significative che hanno investito le terre alte negli anni 10 del terzo millennio, occasioni spesso perse per raccontarne all’opinione pubblica luci ed ombre di un terzo del territorio nazionale.
Dopo le Olimpiadi di Torino 2006, con i suoi strascichi di polemiche economiche e ambientaliste, debiti ed eredità scomode sui territori, si è sviluppato un dibattito critico nei confronti dei grandi eventi in quota, sfociato nella difficoltà ultima di trovare territori candidati ad accogliere i prossimi Giochi olimpici  invernali del 2026. Da più parti si comincia a sottolineare come i grandi eventi siano un’occasione soprattutto per le città, mentre i territori montani ne vengono molto spesso investiti senza possibilità di capitalizzare l’occasione e tal volta, addirittura, rischiano di uscirne danneggiati. Una riflessione che sottolinea come esistano, e in alcuni casi siano già stati avviati, modelli alternativi di sviluppo al turismo di massa e ai grandi eventi, più appropriati ai territori montani e più attenti a metterne in mostra le peculiarità specifiche. Ma di tutto questo dibattito, ancora, all’opinione pubblica arriva poco o nulla.
Nel settembre 2013 parte in sordina un lavoro di costruzione di una Strategia nazionale per lo sviluppo delle “Aree interne”, cioè quei territori caratterizzati da una significativa distanza dai principali centri di offerta di servizi essenziali, costituiti in maggior parte dai territori montani italiani. Stato Centrale, Regioni e Comuni, insieme ai rappresentanti della società civile dei territori, seduti allo stesso tavolo per programmare il futuro delle 71 aree selezionate dalla strategia, il 16,9% del territorio nazionale, abitato da oltre due milioni di persone. Un progetto ambizioso, con una dotazione di spesa di oltre 190 milioni di euro. Il tentativo concreto di riportare “il margine al centro”, dando un’opportunità ai territori montani che da terre dell’abbandono possono trasformarsi nel “territorio del possibile”. I primi risultati oggi cominciano ad arrivare, ma nonostante questo nessuno ne parla. Hanno scelto di non puntare sulla promozione mediatica, nonostante l’enorme sforzo istituzionale e civile. Ma si sa, oggi se non comunichi non esisti, e se si va a chiedere all’uomo della strada se conosce la Strategia aree interne potrebbe al limite rispondere: “boh! sarà un’operazione dei servizi segreti deviati…”.
Altro fenomeno degli anni 10 è quello letterario, dove il racconto della montagna esce finalmente dai grandi libri di avventura o delle imprese alpinistiche per entrare nella narrativa che mescola chiavi di lettura atropologiche a quelle economico sociali. Non dei saggi d’accademia, ma dei racconti avvincenti di realtà culturali sconosciute “dietro la porta di casa”. Racconti di vita, reportage territoriali, fino all’importante libro di Paolo Cognetti “Le otto montagne”, che è riuscito ad arrivare al grande pubblico,  raccontando di “un altro mondo possibile”. Non un mondo contro, semmai alternativo, e anzi, e questa è la vera novità, senza rotture, dove città e montagna non si odiano ma trovano il modo di convivere e collaborare con reciproco vantaggio, ciascuno secondo le proprie capacità. Ancora una volta però televisioni e giornali non sono riusciti a cogliere e raccontare l’innovazione, le potenzialità di quello che sta accadendo: un numero non trascurabile di persone, soprattutto giovani, scelgono un progetto di vita alternativo a quello “consumista” proposto dal modello urbano, fatto di rate, usa e getta, viaggi low coast e quant’altro, riavvicinandosi alla terra, all’ambiente, alle comunità locali. Sono aumentate le iscrizioni alle facoltà universitarie di agraria, cresciute le aziende agricole, si è sviluppata un’accoglienza turistica esperienziale di qualità in montagna. Ma a livello mediatico, ancora una volta, il fenomeno viene appiattito sull’eccezionalità delle “scelte coraggiose”, sui singoli casi di “nuovi montanari”, talvolta definiti addirittura “eroi”, fotografando il fenomeno come elitario, modaiolo e riservato a persone come minimo “originali”.
Altro tentativo importante di ridare dignità ai territori montani è stato quello legato alla progettazione europea e ai programmi delle fondazioni bancarie nazionali. Una stagione di opportunità che, forse, con la fine del decennio va affievolendosi, ma che sicuramente lascia un’eredità importante, grazie all’impegno delle accademie, dell’associazionismo e dei professionisti del territorio. Spesso però questi progetti sono stati snobbati dai media, bollati ora come iniziative di tipo tecnico-accademiche, ora come iniziative puramente culturali, e si sa, nella vulgata, “con la cultura non si mangia”. Mentre chi opera in questi territori lo sa bene, vincono i luoghi che puntano sull’innovazione, frutto di ricerca, e sulla cultura che rende unici e appetibili i luoghi della montagna che la coltivano.
Vi sono poi le misure specifiche di cui ha usufruito la montagna in questi anni, come il “Recupero e rivalutazione delle case e delle borgate montane” in Piemonte, o la realizzazione delle Associazioni Fondiarie (ancora una volta proposte dalla Regione Piemonte con una legge ad hoc) per recuperare la produttività delle proprietà fondiarie frammentate e dei terreni agricoli incolti o abbandonati. Misure che in qualche misura hanno incontrato il supporto dei media, per lo meno locali, anche grazie al grosso lavoro mediatico portato avanti da Uncem e altre realtà che si dedicano ai temi della montagna, come Dislivelli.
Oggi uno dei temi che tiene le prime pagine di giornali, imperversa sui canali televisivi e si propaga sulla rete è quello del cambiamento climatico e della possibile crisi ambientale che ne potrebbe derivare. Se ne parla a scuola, in ufficio, qualche volta accanto al calcio e ai motori è diventato persino un argomento da bar. Ci si rende ormai conto, anche in città, che senza una corretta pianificazione e gestione del territorio, aree interne e montagna in testa, le nostre vite sono ormai minacciate da eventi atmosferici eccezionali, amplificati dall’abbandono di una parte del territorio. Non è possibile controllare e mettere in sicurezza il territorio attraverso una manutenzione straordinaria, troppo costosa e impegnativa. E allora ben vengano i progetti di recupero e una certa cultura del riabitare le montagne in maniera sostenibile, che dovrebbero essere appoggiati e incentivati da tutti, nell’interesse di tutti. Dislivelli continuerà quindi ad impegnarsi nel promuovere una nuova narrazione che non disegna gli abitanti della montagna come eroi, ma come cittadini comuni con progetti di vita possibili, sostenibile dal punto di vista ambientale e che dovrebbero diventare accessibili ai più. E in quest’operazione, nello spogliare il racconto della montagna dall’eccezionalità, l’informazione tutta ha una responsabilità di primo piano: perché se spesso la politica si dimentica di inserire nei propri programmi politici le istanze delle terre alte, per via dell’irrisorio numero di voti dei montanari, l’opinione pubblica può giocare un ruolo fondamentale nel sensibilizzare anche il cittadino a questi temi. Con il tema ambientale oggi molto sentito, per esempio, si può aumentare la consapevolezza dell’importanza di una corretta gestione dei territori montani nella coscienza di tutti i cittadini italiani, e allora i voti arriverebbero. Con gran beneficio per tutti, abitanti del pede e abitanti del monte.
Maurizio Dematteis

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