Un ricordo di Giovanna Zangrandi

26 luglio 2020

Il vero nome della Zangrandi è Alma Bevilacqua, nasce nel 1910 a Galliata nel bolognese, dopo la maturità classica si laurea in chimica a Bologna. La passione per la montagna e l’alpinismo la spinge a lasciare la pianura e ad accettare un lavoro di insegnante di scienze a Cortina d’Ampezzo.
Delle Dolomiti ama profondamente le valli e le montagne, nel tempo libero scia e arrampica: nel corso degli anni salirà le cime della conca d’Ampezzo ma anche la Torre dei Sabbioni e il Campanile di Val Montanaia. Non riesce però a instaurare buoni rapporti con gli ampezzani: è una ragazza colta ma poco attraente e molto franca nei giudizi, il suo rapporto con la gente di Cortina sarà sempre di reciproca diffidenza, a volte di aperta ostilità.
Dopo l’8 settembre entra della Resistenza svolgendo per 18 mesi il ruolo di staffetta, nome di battaglia Anna: si muove con tutti i mezzi possibili, specie la bicicletta, come una “soldatessa dei pedali”, macinando a volte decine di chilometri in un sol giorno, nel Cadore e tra le Marmarole. Corre molti rischi e lo sa: le staffette scoperte e catturate vengono seviziate, per farle parlare ma anche per mera crudeltà.

Dopo la guerra fonda la rivista Val Boite e lavora per qualche mese come giornalista, poi si lancia nell’avventura di costruire con pochi manovali un rifugio alpino e di condurlo in proprio: a 1.796 metri, presso la Sella Pradònego, non lontano dal monte Antelao, da cui prenderà il nome. Il luogo è uno di quelli della sua guerra partigiana e il rifugio è un sogno che aveva accarezzato proprio durante la Resistenza, immaginandovi un futuro insieme al comandante partigiano di cui era innamorata, Severino Rizzardi, ucciso dai tedeschi il 26 aprile del 1945. Da quella sella si vedono le Marmarole, le cime del lontano Comelico, i bastioni argentati dell’Antelao. Intorno boschi di larici e abeti rossi, inframezzati da ontani e betulle.
Tanta la fatica per costruirlo, tante le salite dalla valle con una gerla sulle spalle piena di viveri e materiali, ma dopo qualche anno Giovanna capisce che l’impresa più ardua è gestirlo: il rifugio è in una posizione panoramica sì, ma per gli scalatori è troppo lontana dalle vie alpinistiche dell’Antelao e per gli escursionisti non è agevole raggiungerlo. Così, nel 1951 lo cede al CAI di Treviso, che lo gestisce tutt’ora.

Nei primi anni Cinquanta inizia a impegnarsi con convinzione nel mestiere di scrittrice, continuerà però per tutta la vita a svolgere lavori manuali e di fatica. I successi e i riconoscimenti letterari, soprattutto per libri come “I Brusaz” (premio Deledda), “Il campo rosso” (premio Bagutta) e “I giorni veri”, diario dei suoi 18 mesi nella Resistenza, non serviranno a darle serenità economica.
Proprio nel libro autobiografico “Il campo rosso”, che richiama nel titolo una distesa di papaveri, racconta l’avventura della costruzione del rifugio, un vero e proprio azzardo per una donna, nel 1946. Lo stato d’animo di quel tempo lo spiega lei stessa in un racconto, “La guerra è finita”: «Giorni strani, come una convalescenza dopo una malattia di anni; difficoltà ad immaginare, a inserirsi in una vita normale e civile, a dimenticare o superare lo choc di morti e drammi, dolore cocente o altri sentimenti esasperati». Tra le pagine trovano posto l’entusiasmo e il desiderio di creare qualcosa di nuovo e di solido, ma anche flashback delle paure e delle sofferenze della guerra tra le montagne, e la delusione per le tante speranze de “I giorni veri” infrantesi nel primo dopoguerra. Se il suo libro più compiuto è quest’ultimo, “Il campo rosso” è quello scritto con maggiore originalità di stile: in apparenza  diretto e spoglio, contiene richiami alla letteratura del verismo e anche alla letteratura americana, Hemingway soprattutto, scoperta in quegli anni.
Giovanna Zangrandi muore nel 1988, dopo molti anni tormentati dalla malattia, il morbo di Parkinson che le impedisce sempre più di scrivere, e da serie difficoltà economiche. Dopo il successo nel 1963 de “I giorni veri” e la ripubblicazione de “I Brusaz” nel 1966, per molti anni i suoi libri non vengono ristampati. Il più semplice da recuperare è proprio “I giorni veri”. La nuova edizione del 1998 contiene una prefazione di Mario Rigoni Stern, un autore che si spese con generosità per stimolare la conoscenza delle scrittrici, donne spesso valutate con diffidenza dall’editoria: basti pensare alla sua bellissima prefazione ai racconti partigiani di Tina Merlin, che fu decisiva per la loro pubblicazione (“La casa sulla Marteniga”, 1993) e all’invito rimasto inascoltato, all’Einaudi a pubblicare le poesie di Dianella Selvatico Estense (poi stampate da Scheiwiller).
Una vita difficile quella di Giovanna Zangrandi, donna libera e caparbia, con un’indomabile passione per le montagne, per la libertà e la scrittura.
Giuseppe Mendicino

Bibliografia dei libri di Giovanna Zangrandi:
I Brusaz, Mondadori, 1954 (ristampato dallo stesso editore nel 1966)
Orsola nelle stagioni,  Mondadori, 1957
Il campo rosso, Ceschina, 1959
I giorni veri 1943-1945, Mondadori, 1963 (ristampa Le Mani, nel 1998; IBSN editrice nel 2012)
Anni con Attila, Mondadori, 1966
Il diario di Chiara, Mursia, 1972
Racconti partigiani, Nuovi sentieri, 1975 (in 110 copie insieme a una incisione di Augusto Murer e una prefazione di Mario Rigoni Stern)
Gente della Palua, Nuovi sentieri, 1976
Racconti partigiani e no, La Tarantola, 1981
Silenzio sotto l’erba, Nuovi sentieri, 2010

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