Un libro, qualche dubbio e alcune domande

15 febbraio 2010

Il libro di Mariano Allocco Ex sudore populi. Appunti politici dalle Alte Terre del Piemonte, (2° ediz., Ed. Agami, Cuneo, novembre 2009) è un libro importante. Può anche in parte non convincere (come nel mio caso), ma fa riflettere. Dirò subito che la cosa che mi lascia più dubbioso è l’idea del “Patto tra le Alte terre e le Grandi Pianure”. Non per i contenuti del patto (illustrati alle pp. 170-177), tutti sottoscrivibili, quanto per la praticabilità e la stessa legittimità di un patto di questo genere. Anche se vogliamo usare la parola in senso un po’ metaforico, “patto” significa pur sempre un accordo negoziato, che impegna le parti. Ma per negoziare ci vuole una forza, che – come realisticamente riconosce l’autore – chi vive la montagna oggi di fatto non ha. Potrebbe (anzi, egli dice, dovrebbe) averla di diritto. A tal fine egli propone una “riformulazione dell’impianto istituzionale per garantire il giusto livello di rappresentatività ai territori montani, rivedendo i collegi elettorali e introducendo parametri correttivi di valenza territoriale alla rappresentatività esclusivamente numerica” (p. 171-172). Qui i dubbi per me diventano due. Primo: quali interessi (reali e non solo ideali) hanno oggi le regioni (o lo stato, o l’Ue) per attuare una riforma del genere? Secondo: quale sarebbe il fondamento pratico e giuridico di un tale diritto? In particolare: è vero che solo i residenti “vivono la montagna” e solo loro sono legittimati a rappresentarne gli interessi? Due dubbi da cui ne deriva un terzo: chi ci garantisce che, disponendo di un voto più “pesante”, i residenti lo spenderebbero a vantaggio di norme e progetti che tutelano gli interessi generali della montagna e non i loro individuali?  Questo rischio è d’altronde ben presente all’autore, quando scrive «lo sgretolarsi della comunità ha così prodotto l’atomizzazione della società che è rimasta sulle montagne, gli interessi individuali prendono il sopravvento ecc (p. 46)». Quello che A. Magnaghi chiama “localismo vandalico” ne è purtroppo già da tempo una prova.

Chiedo a chi ha maggior esperienza di me, sia sul piano politico-amministrativo che su quello giuridico (a cominciare da Mariano Allocco, se vorrà gentilmente intervenire) come si possono fugare questi dubbi. Lo chiedo perché il problema esiste ed è grosso. Per chi voglia averne un quadro sintetico e chiaro consiglio vivamente di leggere questo libro, che sviluppa un’analisi sul passato della nostra montagna (con interessanti approfondimenti sul caso della Val Maira) e sulle sue attuali condizioni e prospettive, il tutto inquadrato in un’ampia visione del contemporaneo evolvere delle idee e delle pratiche relative a temi fondamentali come quelli di democrazia, libertà, comunità, uguaglianza, cultura, identità, politica.

Per la parte di mia competenza – quella dello sviluppo socio-economico territoriale – temo che in vaste parti delle Alpi occidentali italiane siamo ormai al di sotto della massa critica di popolazione per realizzare, con le sole forze locali, alternative efficaci a una “colonizzazione” esterna. Nell’economia odierna della conoscenza e dei servizi il fattore decisivo è “l’effetto città”, il quale (anche pensando la città come rete di centri minori) si ha solo oltre una certa soglia di popolamento. Da noi questa soglia è soddisfatta dentro le Alpi nel VCO, nella Valle d’Aosta e forse nella valle di Susa. In altri casi questa funzione è svolta dalle piccole e medie città allo sbocco delle valli (Biella, Ivrea, Pinerolo, Saluzzo ecc.). Ma queste esercitano effetti positivi diretti solo sulle basse valli, a meno che ad esse non si connettano relais urbani minori nelle medie e alte valli (come p. es. Susa, Oulx e Bardonecchia in Val di Susa), che però a loro volta per funzionare richiedono un certo livello di popolamento. Che cosa si può fare oggi là dove siamo ormai largamente al di sotto di tale livello, come ad esempio a Ceresole Reale, Balme, Blins, Acceglio e nei vari altri comuni interni dove stanno scomparendo le farmacie, gli uffici postali, le scuole elementari e simili? Che cosa potrà impedire che più di metà delle Alpi piemontesi si riduca ad essere «luogo di svago per sfogare lo stress delle città o grande parco naturale per rasserenare animi e sedare sensi di colpa collettivi nei confronti di una natura violentata in pianura» (p. 170)?

Sarebbe interessante confrontare il punto di vista di uno come me che vive a Torino e che pratica e studia le montagne dall’esterno, con quelli di chi ci vive e ci ragiona all’interno. Dovrebbero comunque essere riflessioni e proposte non solo particolari e settoriali, ma rispondenti a una visione ampia, sistemica, come quella di questo libro, che tenga presenti gli aspetti culturali, sociali, tecnici, economici, politici e istituzionali.
Beppe Dematteis

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