Terra d’asilo, terra di rifugio: le Alpi nel secolo dei rifugiati

9 dicembre 2016

In questi giorni, dopo aver assistito ad una esibizione del Coro Moro in università e aver riletto un articolo di Barbara Spinelli sul “secolo dei rifugiati ambientali”, sono andato a riprendere dalla mia libreria il numero 5 (inverno 2001-02) di quella bellissima e unica rivista che era il semestrale “L’Alpe”, diretto dal nostro amico Enrico Camanni. “Terra d’asilo e terra di rifugio” era il titolo del numero in questione e così scrivevano, nell’editoriale, intitolato “Frontiera chiusa, frontiera aperta”, lo stesso Camanni e Daniele Jalla:
«Rifugio e asilo non sono la stessa cosa. Il rifugio allude a un bisogno di fuga, l’asilo sottintende accoglienza e protezione. Letteralmente significa “senza diritto di cattura”. Sulle montagne hanno cercato rifugio i valdesi e i dolciniani perseguitati, i montanari e i cittadini ribelli, gli eserciti in ritirata e i popoli in cerca di nuove terre, le culture minacciate dall’omologazione, gli adoratori del silenzio, i filosofi in collisione col mondo, i turisti in fuga dalla città, gli alpinisti nei loro rifugi. Perseguitati, ribelli, militari, eretici, eremiti, filosofi, turisti e alpinisti hanno trovato nelle montagne temporanea risposta ai loro bisogni, un rifugio appunto, da che “le montagne – scrive Luisa Bonesio nell’introduzione – apparvero all’immaginazione artistica e alla sensibilità estetica un mondo severo se non terribile, la cui verticalità assurgeva a una sorta di sublime iniziazione e veniva codificata nella cifra dell’inaccessibilità”. Rifugio in quanto luogo dell’impervio, repulsivo, inospitale. Avamposto lontano dalle pene e dalle violenze del mondo. Luogo di fuga prima che luogo di accoglienza. Ma spesso i fenomeni estremi si manifestano nella loro dicotomia». E infatti «le Alpi hanno assolto la doppia funzione di rifugio chiuso e di rifugio aperto, in rapporto al grado di amicizia e coinvolgimento delle popolazioni locali. Così sono state talvolta delle trappole per i potenti e le loro milizie, e nel contempo luoghi di asilo per i dolciniani perseguitati dalle truppe vescovili, per i disertori ricercati dalla giustizia, per i partigiani in lotta contro la tirannia. Emarginazione e accoglienza, frontiera chiusa e frontiera aperta: ecco i due poli entro cui si può leggere la presenza dell’estraneo tra le montagne».
A distanza di quindici anni dall’editoriale di Camanni e Jalla, la crescente presenza di immigrati stranieri nelle Alpi – e in particolare il recente fenomeno dei richiedenti asilo e dei rifugiati – conferisce un nuovo senso a quelle parole, a partire dalla riattualizzazione del concetto di frontiera aperta e di frontiera chiusa, a cui gli autori dell’articolo facevano riferimento.

Le Alpi oggi, e in particolare quelle italiane, sembrano mostrare tutta la loro fragilità, insieme al loro potenziale di innovazione, proprio nella sfida che è stata loro posta dall’arrivo degli estranei (i forestieri di arcaica memoria, oggi rappresentati dai migranti): territori in forte transizione demografica (che per la metà circa dei comuni montani significa ancora calo dei residenti, o tenuta a denti stretti), in crisi di vocazione turistica (la fine dello sci a quote medio-basse non trova spesso un contraltare nello sviluppo di un turismo slow e sostenibile), nelle secche di una persistente museificazione identitaria (favorita dall’invecchiamento della popolazione e dall’adeguamento alle aspettative di loisir dei fruitori urbani), quelli alpini sono tante volte gli spazi socio-culturali della chiusura, dell’emarginazione rispetto alle diversità, della paura del mutamento; mutamento che provoca spaesamento, angoscia, senso di inadeguatezza, soprattutto se è portato da giovani stranieri piombati da un altrove sostanzialmente ignoto e venuti a sconvolgere una dimensione locale tanto sicura, quanto, nei fatti, spesso residuale.
Nelle Alpi della paura lo straniero può trovare a volte rifugio, ma non accoglienza. Può trovare tolleranza, ma non relazioni umane significative. Può fermarsi temporaneamente, nel corso della sua fuga, ma non mettere radici. Non certo diventare montanaro.
Ma le buone pratiche che abbiamo cocciutamente e ripetutamente presentato in questa rivista – quelle di PaceFuturo nel biellese, di K-Pax in Val Camonica, del Parco Solidale nelle Marittime, del Coro Moro nelle valli torinesi, e le non poche altre realtà di questo genere, sparse lungo tutto l’arco alpino – ci dicono invece che esistono ancora e sempre le Alpi dell’asilo, quelle in grado di accogliere, a fronte di politiche dal basso intelligenti e partecipate, chi non solo fugge, ma, a volte, cerca casa, cerca una nuova patria, una comunità possibile, là dove la rarefazione sociale ha creato dei vuoti e dove la montagna ha bisogno di braccia e di intelligenza per non rovinare a valle, trascinando con sé secoli e secoli di ostinata antropizzazione.

Come sostiene Barbara Spinelli, il XXI secolo sarà probabilmente ricordato come quello dei rifugiati, e non solo o non tanto quelli in fuga da guerre e persecuzioni, ma soprattutto quanti sono scacciati dai propri territori a causa di carestie e siccità dovute al cambiamento climatico, di espropriazione terriera legata al land grabbing e alle monoculture, di impossibilità di vita per l’innalzamento del livello dei mari. Rifugiati che non di rado vengono anche da zone montane, e magari proprio dai paradisi dell’alpinismo mondiale, come la catena dell’Himalaya. Un documentario di qualche tempo fa (prodotto da Ev-K2-Cnr e realizzato dal giornalista Stefano Ardito) ci mostra per esempio la situazione drammatica che si vive da tempo nella regione del Mustang, in Nepal. Da qualche anno, gli abitanti di Dhe, di Sam Dzong e di altri villaggi d’alta quota hanno visto infatti le loro sorgenti inaridirsi e sono stati costretti ad abbandonare buona parte dei loro campi. I pascoli, che prima consentivano la vita di grandi mandrie di yak, diventano rapidamente più aridi. In alcune zone, le fonti di acqua per irrigare e dissetarsi si sono ridotte del 70-80%. Per queste ragioni, gli abitanti di alcuni villaggi hanno chiesto alle autorità locali e al governo di Kathmandu di essere considerati dei “rifugiati ambientali”, e di essere ricollocati in nuovi centri edificati ad hoc, in zone più fertili e a quote inferiori.
Una parte crescente di questi rifugiati ambientali (che nel 2050 potrebbero arrivare alla cifra totale di ca. 250 milioni, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) si incamminerà verso l’Europa, continente ricco non solo dal punto di vista economico, ma anche per le proprie risorse idriche, per la fertilità dei suoli, per la minore pressione antropica rispetto ai territori da cui i profughi sono in fuga. E’ un fenomeno epocale, di natura strutturale (come da tempo va sostenendo, anche su questa rivista, il sociologo Alessandro Cavalli), sostanzialmente impossibile da arrestare, se non dichiarando uno stato di guerra contro una moltitudine di “invasori” disarmati.
Le Alpi del nostro secolo possono dunque essere di nuovo un “avamposto lontano dalle pene e dalle violenze del mondo”? Probabilmente no, non in un mondo globalizzato, dove neppure le “aree interne” sono davvero lontane da un urbanesimo di spazi e di vita, esteso su scala planetaria. Ma possono essere “frontiera aperta” e fare i conti con la sfida del neo popolamento, dell’innovazione culturale, della trasformazione socio-economica, anche radicale, che questo primo scorcio del terzo millennio sembra loro annunciare.
Andrea Membretti

Commenti: 1 commento

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