Quattro decadi, quattro domande

4 marzo 2021

Quando mi è stato chiesto di affrontare il tema del cambiamento turistico in atto attraverso la lente dei rifugi alpini, mi sono subito venute in mente certe chiacchierate davanti a una Leffe alla spina sulla spianata del rifugio Garelli. Qui, in alta Valle Pesio (Cn), a 1970 metri di quota, sale da quarantadue stagioni Guido Colombo. In tutto questo tempo ha visto andare, venire, tornare, cambiare d’abito e d’abitudini quattro generazioni di frequentatori della montagna e lo racconta col piglio dell’abile e consumato narratore che ha avuto modo di ripetere e cesellare gli aneddoti un’estate dopo l’altra, fino a rasentare la perfezione. Lo fa dal telefono del rifugio, che è venuto ad aprire apposta nell’ultimo fine settimana di febbraio per un gruppo in traversata dalla Val Ellero. L’acqua scorre nei tubi, il minestrone è sul fuoco, il pavimento sta asciugando e Guido parte dall’inizio, quando la domanda che veniva angosciosamente rivolta al rifugista era:

“C’è posto?” – Anni ’80
Nel 1980, quando Guido inizia la gestione, al rifugio non c’è il telefono: i gruppi prenotano da un anno all’altro e si concentrano in due periodi di attività forsennata: la furibonda stagione primaverile dei canaloni innevati sulla parete nord del Marguareis e la fatale quindicina di agosto per le escursioni a piedi e su roccia. Sono per lo più alpinisti e si muovono in gruppi sezionali. Arrivano al rifugio carichi di attrezzatura e viveri propri: a nessuno viene in mente di reclamare il pranzo, al massimo il gestore, arrangiandosi si una cucina di fortuna, riesce a rimediare un po’ di tè, un piatto di minestra e l’acqua calda che serve agli stranieri per cuocere i loro misteriosi intrugli liofilizzati.
Guido è il primo gestore a inaugurare la stagione di apertura continuativa da giugno a settembre: un pioniere del nuovo corso dei rifugi che, almeno nelle Alpi Liguri e Marittime, passano proprio in quegli anni dal modello “chiavi in mano e arrangiati” al sistema “presidio custodito per l’intera stagione”. Il grosso del guadagno viene dai pernottamenti: 70% degli introiti al Club Alpino Italiano, 30% al gestore con saldo a giugno, tanto le tasche si sono già riempite abbastanza da versare il dovuto alla sezione senza svenarsi. La struttura del rifugio originale dichiara implicitamente la sua vocazione: ha 76 posti letto, 25 posti al tavolo e 1 bagno. Il concetto è: l’alpinista dorme in quota per alzarsi prima dell’alba, compiere l’impresa, mangiare al volo quello che ha portato con sé e scendere a valle senza troppe pretese.

“C’è da mangiare?” – Anni ’90
Il vecchio rifugio va a fuoco, il nuovo Garelli viene ricostruito. Ma intanto anche l’ardore per i canaloni si è affievolito: l’afflusso primaverile degli alpinisti inizia a scemare, tanto che Guido deve chiedere il posticipo a luglio del saldo del pagamento. A giugno gli toccherebbe anticipare dal proprio conto in banca perché la stagione inizia a ingranare solo da allora. In compenso un nuovo appetito si sparge fra i frequentatori dei rifugi, sempre meno propensi a portarsi il cibo sulle spalle: a poco a poco si impone ovunque la mezza pensione. Il nuovo rifugio è pronto ad accogliere gli stomaci che brontolano con un numero adatto di posti a sedere e una cucina più spaziosa e attrezzata. La maggior parte degli escursionisti sale al rifugio o punta alla vetta senza uscire dalla valle in cui ha posteggiato la macchina, i colli in quota e i sentieri che li attraversano versano in uno stato di semi-abbandono. Ma qualcosa bolle in pentola: decolla la Grande Traversata delle Alpi e iniziano ad arrivare i primi escursionisti a lunga percorrenza, italiani e stranieri.

“Che cosa c’è da mangiare?” – Anni 2000
Gli alpinisti da canalone languono, in via di estinzione e sempre più attempati: sono gli stessi che frequentavano i canali negli anni ’80, solo con qualche primavera in più. I giovani tendono a disertare le salite innevate: al massimo i canali li usano per scendere con gli sci, concludendo la gita in giornata. Sempre più escursionisti, in compenso, distendono volentieri le gambe affaticate sotto i tavoli e chiedono menù più completi, dal primo al dolce al pusacafé. La polenta diventa la legge nel piatto oltre i mille metri di quota.

“C’è la doccia?” – Anni 2010
Alla GTA si aggiunge il trekking a tappe intorno al massiccio del Marguareis (2006), che riscopre definitivamente i colli principali. Gli escursionisti, sempre più numerosi, diventano anche più esigenti in fatto di igiene personale. Nasce l’abitudine, o quasi, della doccia in quota. Il declino dei canaloni come opzione di salita è ormai un fatto: adesso il numero di alpinisti che vi si dedica nell’intera stagione, sarebbe transitato in un solo fine settimana trent’anni fa. Fanno capolino nuovi soggetti, che si muovono leggeri con le scarpe da corsa e microzaini sulle spalle: sono i trail runner. Qualcuno ha il buon senso di fermarsi a bere una birra in rifugio mentre macina chilometri su chilometri in quota.

“C’è la doccia calda” – Anni 2020… o forse no?
Il decennio 2020-2030 è iniziato nel più anomalo dei modi con la stagione della pandemia. A giugno 2020, il termine della clausura coatta dettata dal virus catapulta migliaia di italiani in montagna. Sono per lo più gite in giornata: per quanto i rifugi si attrezzino per garantire il distanziamento sociale, camerate e bagni in comune spaventano ancora molte persone. Nel 2019 il rifugio totalizza cinquecento pernotti a giugno, un anno dopo, nello stesso mese, sono solo cento: il Garelli, come molti altri rifugi, diventa un ristobar in quota. Un rovesciamento completo rispetto agli inizi.
Fra i volti nuovi dell’estate 2020 c’è chi, libero di muoversi e con qualche preoccupazione economica in meno, sarebbe magari andato volentieri dall’altra parte del mondo e invece si trova all’improvviso in un mondo verticale di cui ignora ambiente, linguaggio e galateo. Qualcuno fatica a capire la realtà del rifugio, i suoi menù sobri e i prezzi diversi da quelli del fondovalle: non sa che, dalla carta igienica ai pelati, ogni chilo di materiale in media costa un euro di trasporto, sull’elicottero o a dorso di mulo. C’è poi chi non si capacita del fatto che il rifugio sia raggiungibile solo da sentiero e chiede: “Vabbè, su, confessate: ma voi gestori da dov’è che salite con la macchina? Dove si nasconde la strada?”. C’è anche chi è tornato dopo decenni di latitanza dai monti e magari una percentuale di entrambe le categorie è stata conquistata per la vita dalle terre alte. Torneranno? Come saranno fatti i rifugi del futuro e i loro frequentatori?
Nonostante oltre quarant’anni di gestione a Pian del Lupo, o forse proprio per questo, Guido in merito è ottimista: «È probabile che la frequentazione della montagna aumenti, voglio pensare però che diventi anche sempre più consapevole e leggera, che chi entra in rifugio sappia intravedere il mondo oltre la polenta e godere di quello che trova nell’ambiente e nel rifugio. Perché chiedere di più – per esempio più acqua, più calda, più spesso – vorrebbe dire compromettere quello c’è».
Irene Borgna

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