Medicina territoriale: il futuro post Covid

29 aprile 2020

Nei piccoli comuni, i sindaci devono attivarsi in prima persona. Lo dice Ferruccio Fazio, medico in pensione. Già docente universitario è da meno di un anno sindaco di Garessio, comune piemontese di 3000 abitanti dov’è nato e abita, tra le montagne che tanto ama, conosce e frequenta. Il 24 febbraio il primo annuncio dell’emergenza in paese: chiuse scuole, asili, biblioteca, invito a non recarsi al pronto soccorso (quello di competenza è a Ceva) ma a rivolgersi al medico di famiglia. Il 15 marzo il primo caso ufficiale di Covid 19, e si attiva la ricerca dei contatti intrattenuti dal paziente con altri cittadini. Isolata da fine febbraio l’Opera Pia Garelli, un’ottantina di ospiti e 25 operatori. Si effettuano i tamponi e 26 persone risultano positive. «D’intesa con i medici di medicina generale – racconta  Fazio -  abbiamo diviso i positivi e i paucisintomatici sospetti in camere singole, attivando percorsi separati all’interno della struttura. Così abbiamo mitigato i sintomi e contenuto l’epidemia».  Malgrado le difficoltà a reperire le attrezzature di protezione, tutti gli operatori della casa di riposo ne sono stati subito dotati. Anche grazie a donazioni, come quella di un ospedale tedesco che ha inviato 300 mascherine FFP2 ai lavoratori dell’Opera Pia. Come in tanti altri casi, il comune si è attivato per distribuire mascherine lavabili ai cittadini, e dai primi di aprile chi circola in paese deve indossarle, insieme ai guanti.
A Fazio l’esperienza non manca: prestigioso curriculum di medico, è stato docente di Medicina Nucleare alla Bicocca. Nel 2009, viceministro della Sanità di un governo Berlusconi, dovette rispondere a un’altra pandemia, quella della cosiddetta influenza suina: «molto meno contagiosa del covid 19, spiega, e inoltre c’era già un vaccino». Ministro della Salute da dicembre 2009, intervenne nella polemica sui tagli alla sanità. «C’è un solo modo per salvare il Sistema sanitario e consentire la sua sostenibilità: aumentare il contributo delle classi più abbienti modulando i ticket in base al reddito». Lo pensava allora e lo ha ribadito di recente.
A Garessio è stata messa in pratica un’azione che Fazio definisce “artigianale”, che contiene alcuni elementi fondamentali della strategia che sta elaborando, con la task force che dirige da pochi giorni, per rifondare la medicina territoriale in Piemonte. Regione che insieme alla Lombardia registra  il maggior numero di contagi d’Italia, con una strage di pazienti nelle residenze per anziani.
«I dispositivi, le leggi e le proposte per la medicina territoriale ci sono sempre stati, con le case della salute, le infermerie di comunità: ma con la scarsità delle risorse, di fatto tutte le giunte hanno privilegiato gli ospedali. Questa emergenza ha riportato d’attualità il tema della prevenzione e della medicina territoriale. In Veneto e in Toscana c’è, e ha funzionato. In Piemonte deve essere rimessa in piedi.

In generale, se ci sono problematiche sanitarie i primi a intercettarle devono essere i medici di base, riuniti possibilmente in associazioni tra professionisti, anche per valorizzare le competenze. Alcuni esami fondamentali, del sangue, elettrocardiogrammi, radiografie, si devono poter effettuare in ambulatorio. In ospedale bisogna mandare chi è davvero in emergenza. Per quanto attiene il Covid, è necessaria una rete di tamponi più estesa. Il convalescente poi dovrà essere di nuovo assistito sul territorio, in strutture per cronicità e riabilitazione.
Questo è il percorso virtuoso che va rimesso in piedi: con la fase 2 è ripartita la liberalizzazione, si sono allentati i vincoli, e se ritorna questa pandemia, com’è prevedibile, a settembre, ottobre al massimo dovremo essere in grado di intercettarla con i tamponi sul territorio attraverso i medici di medicina generale. E’ necessario evitare di intasare gli ospedali, per fare sì che funzionino per il Covid19 ma anche per tutte le altre patologie». Oggi a molti pazienti l’ospedale fa paura: spesso li evitano anche in caso di necessità, per timore di contrarre il virus, anche se gli ospedali hanno previsto percorsi differenziati e sicuri per i pazienti non Covid.
«La montagna ha le sue peculiarità – continua Fazio -. A Ceva, per esempio, c’è un pronto soccorso che serve un bacino di 10mila persone. Per gli infortuni in quota e le emergenze gli elicotteri ci sono, il soccorso alpino c’è, funziona bene. Penso che una riorganizzazione territoriale favorirà le persone che vivono in montagna. E nel mondo post Covid, dove aumenterà il turismo di prossimità, un’organizzazione territoriale efficiente darà anche ai non residenti una garanzia di assistenza».
Più responsabilità e valorizzazione per i medici di famiglia, organizzati in associazioni professionali, con strumenti diagnostici a disposizione, dunque. «Quando ero al Ministero della salute ho dialogato moltissimo con i medici di base – conclude Fazio -. Ma una cosa è occuparsi di teoria e un’altra è mettere le mani nel fango».
E il fango non manca. Nella sanità piemontese la perdita di medici, ospedali e posti letto parte dal 2000. La politica dei tagli ha portato alla riduzione dei medici di famiglia: nel 2005 se ne contavano 3497, scesi a 3178 nel 2011 dopo la stretta del governatore Cota, deciso a ripianare un debito di tre miliardi. Dal 2000 al 2017, ultimi dati ufficiali disponibili, si registrano 583 medici di famiglia in meno. Per quanto riguarda i posti letto in ospedale, dal 2000 sono scesi di quasi il 30%, con la perdita di 5680 unità.
«Non è certo una novità la medicina territoriale: non a caso sono nate 60 case della salute e infermieri di comunità in tante valli piemontesi», spiega Marco Bussone, presidente nazionale dell’Uncem, l’Unione nazionale dei comuni, delle comunità e degli enti montani. La delegazione piemontese nel 2018 presentò all’allora assessore della Sanità Saitta un documento dal titolo Piano delle cronicità, case della salute, emergenze, medici di base e pediatri, organizzazione e digitalizzazione.

«Sanità, scuola e trasporti nelle aree interne sono sistemi strettamente correlati – continua Bussone -. In Piemonte, indipendentemente dalla Strategia Nazionale Aree Interne, già con le Giunte Bresso e Chiamparino era emersa la necessità di ripensare l’organizzazione sanitaria territoriale su due pilastri: le cronicità, per seguire le persone anziane e le fasce deboli, e le criticità. In montagna servono strategie mirate, medici di base e infermieri di comunità, come è stato sperimentato in Val Maira con il progetto europeo Consenso. Sulle cosiddette acuzie si pensò di puntare sul potenziamento della rete del 118 con ambulanze medicalizzate e l’elisoccorso, con piazzole attrezzate per il volo notturno. Oggi in Piemonte sono 120 e altre sono in allestimento: la rete esiste dal 2006, è la prima in Italia e ha dimostrato di essere molto utile».
Troppe aree montane sono oggi sprovviste di medici di base. La situazione si complica di anno in anno anche per i pediatri. Le visite a domicilio sono rare, e vengono spesso ridotti gli orari di apertura degli studi medici nei paesi. La proposta di Uncem è quella di fissare incentivi economici per i medici che lavorano in montagna. Una legge nazionale del 2019, il cosiddetto Decreto Calabria, consente alle Regioni di integrare il contratto Nazionale, siglato lo scorso anno. La legge è molto recente, non l’ha ancora fatto nessuno.
In Piemonte sono attive 60 case della salute, poste nei fondovalle: perché funzionino anche per le terre alte, secondo Uncem, servirebbero visite su prenotazione e una buona organizzazione di trasporti mirati e a richiesta, da organizzare con il contributo dell’infermiere di comunità. Un grande aiuto potrebbe venire dalla telemedicina e della tele assistenza, molto diffusa in altri paesi europei per monitorare a distanza i malati cronici, con dispositivi che funzionano con la rete.
Infine, anello importante della proposta dell’Uncem sono le farmacie rurali, con cui è stato concluso attraverso Federfarma un accordo di collaborazione. «La legge già consente alle farmacie nei luoghi decentrati di effettuare esami diagnostici, e molte hanno un locale separato che si potrebbe facilmente adibire a studio medico. Non siamo pianificatori, è un mestiere che spetta ai manager della sanità, ma siamo il polso delle aree interne italiane. Abbiamo indicato una strada, ce ne possono essere altre: l’importante è avere una visione, un progetto solido, e la capacità e le risorse per realizzarlo».
Claudia Apostolo

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