Lo spazio del rifugio. Cosa abbiamo imparato nel 2020?

4 marzo 2021

La rarefazione, che connota nel profondo l’ambiente dell’alta quota (non solo la rarefazione dell’aria, ma anche quella della presenza antropica, vegetale e animale, dei morfemi paesaggistici, ecc.), a causa della pandemia riguarda anche l’ambito del rifugio, inteso come entità spaziale definita. Con il paradosso che l’unico elemento artificiale in alta quota, concepito come punto di riferimento e aggregazione, che favorisce e implica la concentrazione di persone e attività, ora si deve attrezzare per una loro, almeno parziale, dispersione.
Ricordiamo che, tra le strutture di accoglienza, il rifugio è uno straordinario unicum come modello di socialità, con una serie di regole (scritte e non), che connotano la condivisione di spazi e funzioni che educano alla convivenza, all’adattamento. Tuttavia, ora, i concetti di “condivisione” e “promiscuità” appaiono quanto di più lontano ed esecrabile rispetto all’idea di separazione e allontanamento implicata dai protocolli dell’emergenza sanitaria.

Talvolta, capita che non vi sia nulla di più definitivo delle trasformazioni “provvisorie”. Così, prima d’intervenire sullo spazio fisico dei rifugi (tavoloni dei refettori sostituiti da tavolini? camerette ricavate dalla vivisezione dei famigerati e inconfortevoli cameroni?), prendiamoci un attimo per riflettere, per non rischiare di buttare il bambino con l’acqua sporca. Così, bene ha fatto il Cai ad intervenire tempestivamente nel garantire fondi di solidarietà per i rifugi e i rifugisti (che, ricordiamolo, di quella passione, che è pur sempre un lavoro, debbono campare): una meritoria quanto doverosa politica di welfare per affrontare un’emergenza che, si spera, sia temporanea.

Infine, esiste un risvolto (positivo) della medaglia? Probabilmente sì. Chissà che le limitazioni di spostamento, gli accessi contingentati e programmati, non favoriscano una ridistribuzione dei flussi. Da un lato, nell’arco temporale: se non siamo pensionati, ora che abbiamo scoperto lo smart working, riusciremo a frequentare la montagna qualche volta anche in settimana, spostando certune incombenze nel week end? Se non abbiamo figli da accompagnare a scuola, possiamo pensare di prenderci qualche giorno di vacanza che non sia a luglio/agosto, tanto tra un po’ – purtroppo – con il cambiamento climatico, potremo salire in alta quota quasi tutto l’anno? Dall’altro lato, nell’arco geografico: limitati negli spostamenti, scopriremo la montagna di prossimità, puntando agli itinerari meno battuti? Perché, dato che qui non parliamo delle strutture comodamente raggiungibili in auto o funivia (per quelle valgano pure le norme da applicare a bar, ristoranti e hotel), al di fuori delle mete iper-inflazionate, la montagna è assai deserta, e molti rifugi non sono overbooking neanche nei fine settimana di agosto. Così, risparmiamoci lo stress per la prenotazione anticipata di settimane o mesi via web al Goûter (il gettonatissimo punto d’appoggio lungo la via normale francese di salita al Monte Bianco), nei rifugi del Monte Rosa o del Gran Paradiso (salvo poi dover disdire all’ultimo perché il meteo è avverso), e “spalmiamoci” nel tempo e nello spazio tra i mille angoli delle nostre meravigliose montagne. E, magari, avremo sperimentato che esistono luoghi “remoti” quasi dietro casa. Infatti, pur tra alti e bassi, alle fine della bisesta e funesta stagione 2020, non tutti i bilanci dei ricoveri in quota hanno segnato un profondo rosso. Proviamo, da parte degli utenti così come da parte dei rifugisti, a reintrodurre della progettualità nelle cose che facciamo, senza limitarci a seguire i must o i “consigliati per te” che registrano il maggior numero di visualizzazioni.
Luca Gibello, Presidente Cantieri d’Alta quota

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