Le aree interne

5 settembre 2017

Enrico Borghi, “Piccole Italie. Le aree interne e la questione territoriale”, Donzelli editore, Roma, 2017, 181 pp.

Il primo e grande merito di questo libro è quello di parlare di politica nazionale del territorio tenendo ben presente la “diversità delle tante Italie”, cioè la diversificazione naturale, economica, socio-culturale e politica che caratterizza il nostro paese. E’ una cosa che purtroppo dimenticano quegli economisti e quei politici che pensano che l’Italia sia fatta quasi solo da 12 città supposte metropolitane. Il libro inizia chiedendosi che cosa è rimasto del dibattito su federalismo, territorio e autonomia che ha animato la discussione e le lotte politiche a partire dalla fine degli anni Sessanta. Riordino istituzionale tecnicistico, crisi del regionalismo, conflitti stato-regione ed eccessiva attenzione ai contenitori a scapito dei contenuti hanno fatto evaporare la sostanza dei problemi e impedito che ci fosse una politica territoriale nazionale. Come ripartire? L’occasione è offerta dalla nuova Strategia nazionale delle Aree interne (quella lanciata da Fabrizio Barca quando era ministro delle politiche di coesione territoriale), un programma di cui Borghi si sta occupando su incarico delle Presidenza del Consiglio. E’ un’occasione importante, perché riguarda la sopravvivenza dei due terzi del nostro territorio, tenuto insieme dalla trama dei comuni minori. Dunque un problema nazionale.
Il libro si apre con un capitolo dedicato a un’analisi critica delle politiche territoriali nazionali, con particolare riguardo a quelle relative alle aree più periferiche, soprattutto montane, con tre “finestre” dedicate alle tre strategie: macroregionale alpina, green communities e aree interne. Il secondo capitolo è un buon saggio di geografia umana, socio-economica e amministrativa del territorio nazionale, che si avvale di una serie di cartogrammi molto dettagliati, realizzati da Caire Consorzio per la Fondazione Montagne Italia. In realtà è una geografia politica, che affronta i nodi problematici emergenti dalla fotografia degli assetti territoriali: il rapporto città-campagna, lo spopolamento, il ruolo dell’agricoltura, il superamento della frammentazione comunale, la governance multilivello, le disuguaglianze, il ruolo dei servizi eco-sistemici. Il terzo capitolo esamina in modo critico il problema delle riforme per un governo del territorio tutto da ricostruire, in particolare quelle relative ai livelli intermedi di governo, città metropolitane, province, parchi. Questo discorso continua nel quarto capitolo, incentrato sulle aree interne come “laboratori dell’innovazione”, dove si riprende il problema del ridisegno della geografia amministrativa a livello di comuni, loro unioni e fusioni, si porta l’esempio delle cooperative di comunità e si conclude con il paragrafo “Crisi fiscale e crisi ambientale: aree interne in vantaggio”, che mi pare un po’ troppo improntato all’ottimismo della volontà, almeno per quanto riguarda la crisi fiscale. Segue un capitolo di confronto con i modelli europei svizzero, francese, tedesco, spagnolo e austriaco. Nell’ultimo capitolo l’autore si pone il problema di come la politica italiana, i partiti, e soprattutto il suo partito (il PD) possono rilanciare una politica “di sinistra”, anche di territorio. Qui egli dimostra di credere nella politica e questo gli fa onore, ma temo che molti lettori, come lo scrivente, fatichino a seguirlo. I miei dubbi, come studioso di geografia politico-economica dipendono dal fatto che, come sostengono economisti autorevoli come il premio nobel J. Stigliz, la sovranità degli stati nazionali e della stessa Ue in materia di decisioni politico-economiche è ormai gravemente limitata dai poteri tecnocratici esercitati da organismi come la Banca Mondiale, il FMI, le agenzie di rating ecc., che a loro volta sono la cinghia di trasmissione degli interessi di un “club della finanza” a cui appartiene quell’1% della popolazione che detiene la metà della ricchezza mondiale (Rapporto Oxfam 2016 ). Il risultato è che invece della politica generale a cui si appella Enrico Borghi si fanno tante politiche specifiche a contenuto tecnico rivolte a ridurre la capacità regolativa e decisionale dell’apparato statale a vantaggio dell’autoregolazione di mercato guidata dalla ricerca dell’utile individuale. Una cosa, tra l’altro, che l’ideologia neo-liberista dominante ci convince essere “naturale” e che quindi condiziona il pensare comune, per cui un programma generoso come quello proposto dall’autore di questo libro rischia anche di non avere il necessario supporto elettorale. Forse un po’ più di realismo permetterebbe di battersi più efficacemente contro queste minacce.
Beppe Dematteis

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