Le “montanare per forza” di Srebrenica

9 febbraio 2017

A Sucèska, in Bosnia Erzegovna, un villaggio poco distante da Srebrenica, l’agricoltura di montagna sta tornando faticosamente a vivere, grazie ad un progetto di cooperazione internazionale nato dal basso. Dall’Altipiano di Asiago a un altro altopiano della ex Jugoslavia, a 900 chilometri di distanza: un filo oggi lega quella “piccola patria” alpina, sconvolta nel ‘15-’18 da trincee e bombardamenti, e un territorio balcanico devastato da una guerra tanto recente, quanto dimenticata.
Nel 2008, durante l’ultima primavera di Mario Rigoni Stern, il giornalista Paolo Rumiz si reca ad Asiago dallo scrittore, per un saluto di addio. E’ accompagnato da Roberta Biagiarelli, attrice teatrale, prima donna a mettere in scena in Italia la tragedia della guerra in ex Jugoslavia e il massacro di civili avvenuto a Srebrenica (già nel 1998, con il suo monologo “A come Srebrenica”). Al tavolo della casa in Valgiardini è seduto anche Gianni, figlio di Mario, dottore forestale appena andato in pensione, con una trentennale esperienza nella gestione dei pascoli, nella monticazione delle malghe e nella tutela del patrimonio boschivo. Mentre Roberta racconta del suo impegno per le popolazioni bosniache, Gianni pensa di fare qualcosa, da montanaro, per altri montanari. Vuole capire e vedere, innanzitutto, ma poi si mette in gioco direttamente e, insieme a Roberta, avviano il progetto della “Transumanza della Pace” (che darà luogo anche ad un film); un paio d’anni dopo, 48 manze di razza Rendena (un’antica specie autoctona trentina, animale rustico molto adattabile), acquistate grazie al contributo della Provincia di Trento, partono dal Nord-Est del nostro Paese per la Bosnia, in un viaggio non facile che – superate dogane, burocrazia insensata e strade dissestate – le condurrà infine nel villaggio di Sucèska. Qui gli animali saranno donati a chi si impegnerà a seguire un corso di formazione all’allevamento (tenuto dallo stesso Gianni), a non venderli e a curarli nel migliore dei modi, per produrre latte ad uso locale e, in un domani, formaggio.

Nel 2010, come oggi, la situazione sui monti intorno a Srebrenica è molto difficile, a distanza di oltre vent’anni dal genocidio che costò la vita a più di 8.000 persone (quasi tutti maschi bosgnacchi di fede musulmana), nel segno della “pulizia etnica” che lasciò sul campo donne violentate, case incendiate, animali sterminati, stalle distrutte. Dopo l’esodo come profughi della gran parte della popolazione sopravvissuta, e un abbandono delle terre che ha portato a un veloce rinselvatichimento, in anni recenti si è assistito a un ritorno alla montagna di crescenti numeri di persone, innanzitutto donne con figli giovani: è una migrazione all’indietro, spinta dalla necessità, più che dalla scelta, come va accadendo in altre regioni montane e rurali dell’Europa post socialista (nei Carpazi rumeni, per esempio, dove si verifica da tempo quel fenomeno di ruralismo di ritorno, bene evidenziato dall’antropologo Vintila Mihailescu). A fronte di un’economia nazionale in forte crisi e al parallelo collasso dello stato sociale, la vita nelle aree urbane diventa insostenibile per larghe fasce sociali, colpite da disoccupazione di massa e dalla perdita di prospettive rispetto al futuro dei più giovani. Da qui deriva un contro-esodo verso le proprietà rurali abbandonate dai profughi durante la guerra, che costituiscono pur tuttavia l’unica risorsa su cui contare, per cercare di contrastare il drammatico impoverimento che colpisce le famiglie di questi ex montanari.

In Bosnia, nell’altopiano di Sucèska, la gran parte della popolazione è composta dunque oggi da vedove, da anziani, da bambini e ragazzi, con una ridottissima presenza di uomini in età lavorativa e una significativa quota di persone di fede musulmana: l’economia tradizionale – centrata sull’agricoltura di montagna e sull’allevamento, non priva di rapporti con le aree urbane e spesso integrata con settori estrattivi ed industriali di fondovalle (era diffusa la figura del contadino-operaio) – è da tempo collassata. Tra i “montanari di ritorno” vige piuttosto un regime di sussistenza e di produzione minima per l’autoconsumo: si vive in case ricostruite con materiali di fortuna e gli animali, quando ci sono, alloggiano in stalle inadatte per dimensioni e caratteristiche igieniche. I rapporti sociali tra musulmani, cattolici e ortodossi restano poi gravemente compromessi, laddove nessuna reale “pacificazione” è avvenuta dopo la fine del conflitto e difficilmente potrà avvenire (in assenza di politiche internazionali di mediazione), finché saranno vivi quanti hanno preso parte, da vittime o da carnefici, a quei fatti di sangue.
Qui, in queste montagne che gli ricordano il suo Altipiano (e la tragedia dei profughi di guerra, che lo abbandonarono nel ‘15-’18, per poi farvi caparbiamente ritorno), Gianni Rigoni Stern ha voluto fortemente promuovere un progetto che – nel solco dei valori di pace e di amore per la terra a lui trasmessi dal padre Mario – cerchi di contrastare l’abbandono rurale, l’inselvatichimento dei coltivi, l’emigrazione forzosa verso Occidente. Le donne sono il fulcro del progetto: a loro sono affidate le vacche giunte dal Trentino, loro sono le prime a frequentare i corsi di formazione sull’allevamento e su di loro Gianni fa innanzitutto affidamento quando pensa alla futura costituzione di un caseificio locale, in grado di sostenere il passaggio dalla produzione per autoconsumo a quella per la vendita all’esterno dei villaggi.
Oggi sono oltre 140 i bovini consegnati agli abitanti di Sucéska e dintorni, più di 80 gli allevatori interessati, oltre 60 gli ettari di prato e pascolo recuperati dall’invasione della felce con erbai di erba medica e mais. Inoltre il progetto sta supportando una meccanizzazione di base dell’agricoltura, conferendo agli interessati trattori, falciatrici, aratri, laddove la devastazione della guerra e la drammatica crisi economica avevano spinto i montanari a tornare all’uso dei cavalli da tiro, della falce, della zappa. Si sono ristrutturate o costruite ex novo stalle più funzionali (proprio in questi giorni, sotto la neve dei Balcani, Rigoni Stern sta sovraintendo alla edificazione di nuove strutture) e si sono raccolti e investiti finora oltre 300.000 euro, provenienti dalla Provincia di Trento, dalla Federazione Allevatori di Trento, da donazioni private (raccolte grazie alle serate di presentazione del progetto e del film “La transumanza della pace”) e, più recentemente, anche dalla Chiesa Valdese, tramite l’8 per mille.
Che cosa può insegnare dunque questo progetto a noi che ci occupiamo di “montanari per forza”? Ne abbiamo discusso lo scorso novembre proprio con Gianni Rigoni Stern, in un incontro con gli studenti del corso di Sociologia che tengo all’Università di Pavia.
Innanzitutto, l’analisi del contesto ha messo in luce come il fenomeno contemporaneo delle migrazioni verso la montagna non sia solo concentrato sulle Alpi e non riguardi unicamente le nazioni europee più ricche: nei Balcani bosniaci si tratta spesso di migrazioni di ritorno, di natura sostanzialmente forzosa, da parte di ceti sociali impoveriti, che non riescono a sopravvivere nelle città. Si manifesta dunque qui il problema dell’inserimento sociale dei “ritornanti” che, sebbene in molti casi siano proprietari di immobili e di terreni agricoli, devono fare i conti con la devastazione e l’abbandono che ha colpito non solo i loro beni, ma l’intero sistema socio-territoriale montano (dal dissesto delle strade al collasso del welfare rurale). Senza azioni di sostegno al re-insediamento, a partire dalla riattivazione dell’economia agricola di montagna, i “montanari per forza” restano tali, confinati ai margini dello sviluppo, in un limbo di precarietà socio-economica ed esistenziale. Questo punto è di fondamentale importanza, anche in riferimento a quanto accade nell’arco alpino rispetto agli immigrati stranieri, ai rifugiati e ai neo montanari in genere: le politiche di accoglienza e di accompagnamento al lavoro (a partire dal sostegno all’auto-imprenditorialità e alla formazione), le agevolazioni fiscali e normative, la promozione di forme di governance dal basso, sono tutti elementi senza i quali la montagna rischia di diventare una “trappola” per chi vi si insedia, quando non una “discarica sociale” rispetto a problemi e persone che le aree urbane preferiscono allontanare.
Ma il progetto di Rigoni Stern ci insegna anche che le barriere culturali ed etniche si possono superare (o perlomeno si deve cercare di farlo), proprio a partire dalle terre alte, dove la convivenza è a volte più difficile ma più necessaria: le montagne europee, interessate oggi da processi di neo popolamento (di ritorno o di nuova immigrazione), mostrano infatti le loro potenzialità (e la loro fragilità) nel configurarsi sempre più come spazi di “negoziazione” (come ci ricorda Pier Paolo Viazzo, seguendo la lezione di Harriet Rosenberg) tra soggettività diverse. Spazi in cui costruire modelli di vita sostenibili, centrati sulla cura del territorio, sull’uso accorto e innovativo delle risorse locali, su di una nuova connessione positiva tra città e montagna. Su questo campo, la sfida che in queste settimane sta affrontando Rigoni Stern è quella di creare le condizioni per cui i piccoli allevatori musulmani possano conferire il latte delle proprie bestie al caseificio di Srebrenica, che è gestito da cristiani ortodossi. Nel caso a noi più vicino dei rifugiati nelle Alpi, le differenze culturali da superare appaiono, per molti versi, meno radicali e fortunatamente non sono il portato di una guerra civile. Proprio l’apertura di spazi di negoziazione crescenti tra diverse popolazioni e culture può favorire pertanto, sulle Alpi come nei Balcani, il passaggio dei nuovi residenti da “montanari per forza” a “montanari per scelta”.
Andrea Membretti

Per sostenere di progetto di Rigoni Stern in Bosnia: Banca Suasa – Credito Cooperativo – Filiale di Mondolfo (Pu), c/c intestato a BABELIA & C. – Codice IBAN: IT 19 S 08839 68390 000030131979. Causale: Sucéska.

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