La montagna e il dopo guerra

29 aprile 2020

In questi tempi di Coronavirus si cerca spesso un conforto, più che un confronto, nella storia, da quella delle più antiche e recenti epidemie (le pesti del 1300 e del 1600, l’influenza “spagnola” del primo dopoguerra) a quella delle due guerre mondiali. È però il riferimento alle due guerre che viene più “naturale”, specie per via del frequente utilizzo di termini come guerra, battaglia, eroi, vittoria e sconfitta per definire il nostro rapporto con il Coronavirus. Un riferimento che è stato rafforzato dal quotidiano bollettino di morti, feriti/contagiati e guariti/dimessi, a causa del nemico Coronavirus.
Riferita alla montagna, però, la metafora della guerra non sembra funzionare molto, anzi, al contrario. A differenza di quanto sta accadendo, oggi, la distruzione e il sacrificio della montagna italiana e della sua gente, sono incomparabilmente minori rispetto a quelli patiti nelle due guerre mondiali, combattute in gran parte nelle montagne, nelle Alpi la prima e anche negli Appennini la seconda. Il confronto tra i morti della strage di Marzabotto, 1830 civili, bambini, donne e uomini, uccisi nell’Appennino bolognese, e l’eccidio delle Fosse Ardeatine, 335 prigionieri, soprattutto politici ed ebrei, uccisi alle porte di Roma, può bastare per avere un’idea della diversa intensità delle sofferenze delle genti della montagna e della pianura italiana. Nella Seconda guerra mondiale La Patria era sui monti, come titola un libro del 1945, e fu anche grazie a questo che “le zone montane” sono, oggi, nella Costituzione della Repubblica.
Ho però voluto rileggere, ancora, quella che è una sorta di “Bibbia” della questione politica della montagna, La montagna in guerra e dopo la guerra, scritta nel 1918 dal deputato dell’Appennino reggiano Meuccio Ruini. Dico subito che non vi ho trovato molto di utile, se non le solite richieste, ben conosciute come, per esempio: l’incapacità e l’impossibilità dei piccoli comuni montani a garantire i servizi pubblici indispensabili; le gravi deficienze del servizio sanitario, delle strade, della scuola e dell’istruzione professionale; i problemi derivanti dal dissesto idrogeologico e la questione della protezione dei boschi per la quale si chiedeva un indennizzo.

Ruini, nel giugno del 1918, a quattro mesi dalla fine della guerra, concludeva che «non possiamo cancellare tutta la povertà naturale della montagna. Ma un risveglio è possibile anche da noi. Dobbiamo anche noi fabbricare la nostra terra, non lasciar che desolatamente degradi». La posizione di una questione montanara, può esser benefica e stimolare a fare.
L’attualità di questo libro non è però tanto nell’elencazione dei bisogni e delle risorse della montagna (l’agricoltura, i boschi, l’energia idroelettrica) quanto il fatto che si concludesse con “Uno schema di ‘provvedimenti per le foreste e per le montagne’ ” e fosse rivolto a dei noti politici: «Queste semplici e modeste pagine sono rivolte al Ministro, al presidente della Federazione Pro Montibus, all’amico [Giovanbattista Miliani]. Tu sei pienamente d’accordo nell’idea che la Pro Montibus, sorta per la tua iniziativa, venga ampliando i compiti più limitati e particolari, cui si è finora dedicata, e diventi veramente l’organo delle forze montanare per agitare e risolvere i problemi della montagna. Con l’Associazione potrà coordinarsi, e svolgere efficace collaborazione, il gruppo dei deputati delle zone montane, alla cui testa sono uomini autorevoli e competenti come i colleghi Rava e Raineri».
Con il suo libro Ruini voleva richiamare l’attenzione di Giovambattista Miliani, presidente dalla Federazione Pro Montibus (che era l’editore del libro), industriale della carta, ambientalista, deputato liberale e, in quei mesi, ministro dell’Agricoltura; Luigi Rava, l’allora vicepresidente della Camera, più volte ministro così come Giovanni Raineri, entrambi importanti esponenti del Gruppo dei deputati delle zone montane.
Quello che può insegnare oggi la “bibbia” della questione politica della montagna è che i deputati di tutti i gruppi parlamentari che appena prima dello scoppio della crisi del Coronavirus, il 27 e 28 gennaio 2020, avevano posto all’attenzione del Parlamento “la questione montanara” con quattro distinte mozioni poi abbinate e modificate nel corso della discussione si mobilitino nuovamente per modificarle e rinnovarle, presto, alla luce dei nuovi problemi posti dal nemico con cui siamo in guerra.

Come scriveva Ruini:
«Imperdonabile sarebbe il nostro errore, se la montagna non avesse, fin da ora, il suo posto in quei provvedimenti, che si chiamano col nome un po’ mitico e indeterminato di dopo guerra, e che io amo chiamare invece provvedimenti pel periodo di ricostituzione. Per la montagna si tratta veramente di ricostituzione».
Anche oggi la montagna ha bisogno di politici che siano in grado di tradurre in provvedimenti legislativi gli specifici bisogni e le caratteristiche esigenze della montagna in questo specialissimo momento storico. Il non farlo, come affermava Ruini, sarebbe un errore imperdonabile. Nel 1916, in piena guerra, Ivanoe Bonomi, socialista riformista espulso dal Partito socialista, ebbe il coraggio e la forza politica di imporre per legge il principio della corresponsione di un sovracanone a favore dei comuni montani a carico delle imprese che producevano energia idroelettrica, principio poi attuato, non senza difficoltà, nel 1953. Oggi le comunità della montagna reclamano il pagamento dei servizi ecosistemici, potrebbe essere un modo di porre in termini concreti la “questione montanara”.
Oscar Gaspari

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