La demografia alpina nel terzo millennio

29 settembre 2019

Ad iniziare dal secondo dopoguerra segnali inquietanti si affacciano sull’orizzonte dei territori montani. Con la fine degli anni cinquanta sembra chiudersi definitivamente un modello di società e di civilizzazione durato quasi un millennio. Si è trattato di un modello costruito – soprattutto sulle Alpi – allo scopo di dare risposte a una crescita demografica di vaste proporzioni. Occorreva avviare una rivoluzione agraria, riflesso di una nuova geopolitica, promuovendo la colonizzazione rurale delle terre alte a partire dal XII secolo. Il fenomeno sociodemografico era governato dai poteri politici ed economici che avevano tutto l’interesse a mettere a coltura gli spazi selvaggi della montagna mediante l’insediamento di contadini dediti al dissodamento ai quali venivano riconosciuti, a titolo di compensazione, privilegi di natura giuridica e amministrativa (autogoverno). Diversamente, nei territori appenninici dell’Italia centro-meridionale, i contadini non beneficiavano di tali provvidenze e le comunità rurali saranno inesorabilmente condannate ad una progressiva marginalizzazione.

Dalla metà del XIX secolo, però, la montagna entra in una fase di criticità strutturale dalla quale non riuscirà più a risollevarsi. Il fragile rapporto fra la consistenza della popolazione e le risorse disponibili che, in epoca premoderna, era normato da statuti e regole autoprodotte dagli abitanti originari al fine di salvaguardare i beni collettivi, verrà a rompersi. Ad una nuova crescita demografica non corrisponderà più un’adeguata disponibilità di risorse. La migrazione stagionale invernale, fisiologica alla sopravvivenza delle società alpine, si trasformerà rapidamente in migrazione definitiva e prenderà avvio, d’ora in poi, l’abbandono e spopolamento giunto fino ai nostri giorni. La rivoluzione industriale iniziata nella seconda metà dell’Ottocento – soprattutto nelle aree del nord-ovest (Piemonte, Liguria, Lombardia) – farà da catalizzatore centripeto verso le città industriali di Torino/Ivrea, Milano/Varese/Brianza e Genova/Savona. Anche nelle aree del nord-est (Veneto e Friuli-Venezia Giulia) la capacità attrattiva del triangolo industriale sarà penalizzante per il Cadore e la Carnia. Soltanto le Regioni a Statuto speciale come il Trentino, il Sudtirol/Alto Adige e la Valle d’Aosta riusciranno a trattenere la propria gente. Fino alla fine degli anni Novanta il trend dell’abbandono sarà inarrestabile. Fra i montanari si era diffuso un atteggiamento di rinuncia, di rassegnazione fatalistica e di resa all’ineluttabile. Ricordo gli anni in cui i montanari delle nostre Alpi (soprattutto sud-occidentali) erano colpiti da una vera e propria “sindrome del colonizzato” attraverso la quale la cultura urbana si era impadronita dell’immaginario alpino. Riflessioni intorno ad un futuro possibile per le terre alte in termini di vivibilità e sostenibilità cadevano inesorabilmente nel vuoto. Il fenomeno ha interessato quasi tutto l’“arrière pays” delle pianure e delle fasce costiere sulle quali si sono riversati flussi consistenti di montanari che, nelle terre alte, non trovavano più lo spazio di vita. Qualcosa, tuttavia, incomincerà a cambiare con l’avvento del terzo millennio. La crisi del modello industriale e l’inizio di una nuova fase post-industriale contribuiranno a far nascere nuove percezioni e rappresentazioni della montagna, perfino fra i più scettici. La voglia di sperimentare stili comportamentali alternativi alla città contribuirà a far cambiare un certo tipo di narrazione. Il rischio legato a questi nuovi bisogni di autenticità e di natura è però quello di lasciarsi andare ad una visione idealizzata della montagna, ponendo in secondo piano le sfide vere della montagna reale. Resta il dato di fatto, statisticamente rilevato (Censis / Cir), che dall’anno 2005 qualcosa è cambiato. A parte il fenomeno dei cosiddetti “ritornanti” è interessante rilevare come, fra non pochi montanari tradizionali, sia caduto il tabù di una montagna irrecuperabile. Il dualismo centro/periferia ha iniziato a vacillare. Esso potrà venire sconfitto se, grazie alle nuove tecnologie digitali, il vivere produttivo in montagna potrà rappresentare una prospettiva ed un’alternativa alla disoccupazione giovanile. Nei primi dieci anni del terzo millennio si sta mettendo in moto una sorta di piccola mutazione antropologica, sia pur timida e graduale. L’attenzione alle problematiche ambientali trova una sua complementarietà con l’interesse per talune tipologie di paesaggio culturale dove l’uomo ha saputo rispettare i limiti di un eccessivo sfruttamento. Molti giovani hanno incominciato ad indirizzarsi verso scelte di studio fino a ieri impensabili. Penso alle molte nuove iscrizioni ad alcuni istituti agrari come San Michele all’Adige in Trentino o Laimburg in Sudtirolo o il polo universitario di Edolo. Nei primi anni duemila hanno preso avvio “start-up” innovative gestite da giovani intraprendenti che intendono vivere nei territori montani o che, giustamente attratti dalla voglia di fare esperienze al di fuori del loro perimetro territoriale, desiderano ritornare nei luoghi d’origine per portare idee fresche e contribuire a far decollare i loro territori.  Si è cominciato, quindi, a respirare un’aria diversa anche se non bisogna abbandonarsi a facili illusioni. Il primo decennio del nostro secolo ha costituito, pertanto, una svolta per ridare speranza ai territori montani.
Annibale Salsa

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