Irene*, skyrunner

6 luglio 2016

Sembra che ogni anno, nel mondo, vengano vendute più di un miliardo di scarpe da running. Di queste, una parte piccola – ma sempre più grande – finisce a consumarsi le suole tassellate in montagna ai piedi di uno skyrunner. Poeta o genio del marketing che fosse, chi ha inventato questo sostantivo potente e intraducibile ha visto lungo: evoca qualcosa di aereo e leggero, un movimento di ascesa, un orizzonte di nuvole sotto ai piedi, il profilo di una persona controluce che si confonde con un crinale alpino. Uau, insomma.
Se correre in montagna ha qualcosa a che fare con la velocità, non ha invece nulla a che vedere con la fretta: è piuttosto un modo nuovo di godere del luogo, imprimendosene le forme e l’andamento nell’appoggio sicuro dei metatarsi, ubriacandosi di bellezza grazie all’avvicendarsi accelerato di scenari sempre nuovi, scoprendo una nuova intimità con la montagna nella libertà di esplorarla al tramonto o all’alba con delicate, rapide, silenziose visite di cortesia che non lasciano alle spalle che un momentaneo afrore di sudato e l’eco di un respiro in affanno.
Quando prova a cimentarsi sui sentieri di sempre con sulle spalle solo l’indispensabile per non morire di fame e di freddo, il nativo escursionista zavorrato sperimenta per la prima volta una metamorfosi esistenziale da goffo bacarozzo in agile camoscio salterino. Un’esperienza dalla quale pochi si riprendono del tutto, perché, come scrive Gaia de Pascale, c’è un limite oltre il quale non si può tornare indietro, ed è “il limite del godimento. Quando si provano certe emozioni si rimane corridori per sempre” . Velocità del corpo, leggerezza dei materiali, intensità dello sforzo e delle capacità sensoriali, sipari di silenzio e solitudine in quota: una solitudine più simile a quella euforica del primo uomo sulla terra che a quella malinconica dell’ultimo. Correre in quota è una peak experience al quadrato: l’esperienza della completa coincidenza fra ciò che si fa e ciò che si è – vissuta in montagna.
Gli skyrunner non sono animali da notte in camerata: al più il rifugio funge da riparo, ristoro, giro di boa dell’itinerario. Di solito li si incrocia lungo il sentiero, in perenne fase di sorpasso. Il commento più frequente rivolto al loro indirizzo è “chi glielo fa fare”, ma, sotto sotto, resta il dubbio che correre sia una cosa divertente e chissà che un giorno non venga la voglia di comprarsi le prime scarpe leggere, per accorciare la falcata e aumentare il passo…

* Nata per caso a Savona nel 1984, si trasferisce per scelta nelle Alpi Marittime con la scusa dell’antropologia alpina. Frequenta la montagna a piedi, di corsa, con gli sci ai piedi, con la bici sulle spalle, con la corda quando scala e con il casco e la luce in testa se va in grotta. «Faccio tutto e non brillo in niente – dice – ma mi diverto un sacco». Collabora con il Parco naturale Alpi Marittime al progetto europeo Life Wolfalps ed è guida naturalistica. Quando non è davanti a un monitor ha il cielo sopra la testa.

Commenti: 1 commento

  1. Gabriele Bonuomo scrive:

    brava Irene, complimenti!

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