Il futuro della montagna “metropolitana” torinese

29 febbraio 2016

Nel 2015 la Provincia di Torino è diventata Città Metropolitana di Torino (Cmt), un aggregato di 316 comuni, di cui poco meno della metà (148) sono montani e assommano a una superficie di 4.181 Km² che è il 61% di quella metropolitana. Lo Statuto metropolitano all’art 1, al comma 5, enuncia tra i suoi principi quello di “riconoscere le esigenze della montagna derivanti dalla sua diversità strutturale, assicurando alle popolazioni di essa parità di diritti sostanziali per quanto riguarda l’accesso ai servizi, le opportunità di occupazione, la protezione dalle calamità naturali e perseguendo il superamento delle condizioni strutturali di marginalità economica e di svantaggio economico presenti nel territorio montano”. Formulazione sacrosanta (tra l’altro suggerita da Dislivelli) che però va accompagnata da una visione in positivo di ciò che la montagna può dare alla Cmt e alla sua competitività.
Parlo di competitività, perché l’introduzione delle Città metropolitane nella nostra Carta costituzionale si basa sul presupposto che le grandi concentrazioni urbane siano i motori dello sviluppo e della competitività in Europa e nel mondo. Considerare metropolitana l’intera provincia di Torino, con un vasto territorio montano a bassa densità, può dunque sembrare un’anomalia. In realtà l’idea che solo le grandi conurbazioni possano essere competitive appartiene a una concezione “fordista” che andrebbe superata.

Nell’Inquadramento socio-economico territoriale elaborato dall’Ires per il piano strategico metropolitano vediamo che negli ultimi decenni Torino, a dispetto della sua elevata concentrazione demografica ed economica, sia andata indietro nelle graduatorie della competitività europea. Qualcosa potrebbe ora cambiare, dal momento che, grazie alla montagna, per quanto riguarda risorse idriche, biodiversità, servizi ecosistemici, parchi, paesaggio, spazi di svago e di sport all’aria aperta, la Cmt può situarsi ai primi posti nelle graduatorie del benessere e della qualità della vita, con sicuri effetti positivi sul suo sviluppo economico se tutto il territorio diventerà “metropoli. Ciò richiede da un lato che la città centrale veda la montagna come una grande risorsa collettiva, come uno spazio dove si può vivere, lavorare e produrre reddito, dall’altro che i territori montani abbiano una visione metropolitana e pro-attiva del loro sviluppo.
Come è stato affermato da più parti (politici e amministratori regionali, della Cmt, delle Unioni e dei comuni montani, Uncem Piemonte) nell’incontro del 26 febbraio scorso, spetterà al Piano strategico metropolitano dare concretezza progettuale a questa alleanza. Secondo lo Statuto, questo piano si propone lo sviluppo sociale, economico e ambientale del territorio, definendone gli obiettivi generali, settoriali e trasversali. Quest’ultima parola è particolarmente importante per la montagna, perché il suo sviluppo può solo derivare dall’integrazione trasversale di diversi settori. Quindi ad esempio non si può pensare a uno sviluppo del turismo senza legarlo strettamente alla tutela ambientale e paesaggistica, alla protezione dal rischio idro-geologico, alle infrastrutture della comunicazione materiale e digitale, alla valorizzazione del patrimonio culturale, alle produzioni tipiche eno-gastronomiche, quindi anche all’agricoltura e ovviamente ai servizi: tutte cose che si sostengono a vicenda per far sì che la montagna sia vivibile per chi la frequenta e sia abitabile per chi ci lavora e ci risiede.

Come si può soddisfare questa esigenza di trasversalità da cui dipende il futuro della montagna e della Cmt? A norma di Statuto, il Piano strategico metropolitano è il risultato di un “processo di copianificazione e condivisione”, che prevede la partecipazione di vari organi metropolitani (Assemblea dei sindaci delle zone omogenee, Conferenza metropolitana, Consiglio metropolitano), oltre alla consultazione delle “realtà sociali”. Il problema è se e come le specifiche esigenze dalla montagna possono tradursi nella programmazione strategica. Gli organi territoriali più vicini alle esigenze dei territori sono le “zone omogenee” dalla Cmt. Cinque di esse interessano la montagna, ma solo una (Valli Susa e Sangone) è interamente montana. Le altre sono ritagliate in modo da comprendere le valli montane e il pedemonte antestante, quindi, pur chiamandosi “omogenee”, presentano al loro interno caratteri e problemi assai diversi. Ci vorrebbe quindi una connessione trasversale che permetta di fare emergere quei problemi comuni a tutta la montagna che sono di interesse generale della Cmt, in particolare là dove la marginalità socio-economica e la debolezza demografica s’accompagnano all’eccellenza ambientale e paesaggistica, alle minacce di dissesto idro-geologico e alla presenza di ingenti risorse poco o male utilizzate.
Il processo di consultazione e di copianificazione del Piano strategico è ora in corso con le modalità previste dallo Statuto e con incontri con gli enti locali e le forze sociali, che testimoniano la volontà dell’Amministrazione metropolitana di garantire un’effettiva partecipazione. Tuttavia occorre che, con riferimento al già citato comma dell’art. 1 dello Statuto, il Piano si faccia carico degli elementi di forza e di debolezza comuni a tutta la montagna e che quindi essa venga considerata nel suo insieme.
La proposta di Dislivelli è quella di introdurre nel Piano alcuni (pochi) obiettivi fondamentali relativi alla montagna, con l’indicazione di misure e di azioni trasversali per realizzarli, anche in relazione all’utilizzo dei fondi strutturali europei. Occorre cioè inserire nel Piano una vera e propria “agenda per la montagna”, gestita da un tavolo permanente cui partecipino le Unioni, i Comuni e le forze socio-economiche interessate allo sviluppo e alla riqualificazione della montagna, con la collaborazione organizzativa dell’Uncem e quella tecnico-scientifica dell’Ires.
Giuseppe Dematteis

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