I luoghi dell’incontro

18 luglio 2019

Non c’è dubbio che i festival abbiano riempito un vuoto. Soprattutto i festival sulla montagna, e in montagna. Le rassegne di letteratura, storia, cinema, teatro e musica sono cresciute esponenzialmente di numero e di quota, registrando ottima partecipazione, lusinghieri apprezzamenti e l’incoraggiamento a “non mollare”. Alla fine di ogni festival c’è un organizzatore esausto che confida al suo pubblico: «Speriamo di rivederci l’anno prossimo». L’augurio non è fuori luogo perché i festival di solito sono sostenuti da associazioni private che stentano a chiudere il bilancio in attivo e quando va bene ricevono il patrocinio dell’ente pubblico e una pacca sulla spalla dell’assessore. Niente di più. Ormai è come se i festival supplissero alla distrazione pubblica in materia di cultura, questione di soldi naturalmente, perché sarà becero insinuare che la cultura non si mangia ma di certo non dà da mangiare, non di questi tempi.
Che ci fosse bisogno dei festival non c’è dubbio, altrimenti andrebbero deserti. Ed è altrettanto indubbio che i festival vadano sostituendo gli appuntamenti tradizionali quali convegni, seminari, vetrine istituzionali e passerelle varie. La montagna contemporanea è più efficacemente interpretata da questi imperfetti e coinvolgenti esperimenti di fiction che da angusti tentativi di sistematizzazione concettuale, al punto che noi scrittori ci vediamo caricati di attese e responsabilità superiori alle nostre forze. Ma la domanda è: che modello vanno divulgando i festival di montagna? Quale rappresentazione? Direi che le piste da seguire sono due: il rapporto con l’ambiente e il dialogo tra l’alto e il basso, cioè tra la montagna e la pianura. Oggi la montagna contiene soprattutto questi due valori: una natura eccezionale da difendere e un incontro da approfondire. L’incontro, non lo scontro. I festival sono i luoghi delle relazioni, ci si parla e ci si ascolta, a dispetto di una cultura purtroppo dominante che costruisce ad arte nuovi steccati, incomprensioni, separazioni e odi pregiudiziali. Montagna e città non possono fare altro che incontrarsi perché appartengono a un solo mondo. Chi vuole il montanaro contrapposto al cittadino è fuori tempo e fuori strada: siamo figli della stessa cultura.

Questo non significa che le nuove generazioni siano insensibili agli insegnamenti della storia e agli atavici legami con la terra. Al contrario. Per i giovani che popolano i festival i racconti dell’altopiano di Mario Rigoni Stern e le testimonianze delle valli cuneesi di Nuto Revelli hanno un senso attuale. Visioni profetiche, grida inascoltate, sono nuovamente motivo d’ispirazione.
Per esempio Revelli ripeteva che «l’assalto del turismo alla società contadina si è rivelato una scelta di guerra». È stata una guerra, pensava Nuto, e i giovani di oggi lo sanno. Saliva il consumismo e moriva la montagna. I turisti arrivavano e i montanari andavano via. Era un’emigrazione biblica, ma i giornali parlavano solo della salita degli sciatori perché loro erano il futuro e i contadini il passato. I “vinti”. Era la prova ampiamente documentata di ciò che Pasolini considerava il gap antropologico del Novecento, cioè il traumatico, troppo rapido, infinitamente sottovalutato salto dalla società del pane a quella dello spreco.
Oggi raccogliamo i cocci di quel fulmineo sbriciolamento di valori, legami sociali ed equilibri naturali. I festival sono pienamente consapevoli della lacerazione tra l’uomo e il suo ambiente, e del poco tempo che ci resta per ricucire. La montagna è la metafora di un vecchio mondo che non c’è più e di un mondo nuovo che non c’è ancora, e questo interessa tutti indistintamente: montanari, alpinisti, contemplatori, attivisti, agnostici. Quasi tutti i frequentatori dei festival si ritrovano in un’idea di montagna che senza rinnegare la città (e come potrebbe: le idee e le narrazioni nascono quasi sempre là) propone un’alternativa alla città vorace e autodistruttiva, simbolo di un capitalismo alla deriva. È un’identificazione ideale, forse utopica, ma nasce da urgenze e bisogni ultracontemporanei.
Enrico Camanni

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