I luoghi comuni della pellicola

27 febbraio 2014

L’arte contemporanea non si comprende guardando Alberto Sordi alla Biennale di Venezia in “Le vacanze intelligenti”. Né “L’impero dei sensi” di Oshima può essere un corso di preparazione per fidanzati. E il cinema ambientato in montagna non è sempre un testimone fedele di quanto davvero accade lassù. Gli stereotipi sullo schermo piccolo o grande non sono così smaccati come in letteratura solo perché le terre alte hanno ospitato i set del cinema più raramente rispetto alle pagine (anche per ragioni anagrafiche: le immagini si sono messe in movimento ben dopo la nascita dell’alpinismo). Ma ci sono e basterebbe, per capirlo, cercare fra i replay del sito Rai una qualsiasi puntata di “Un passo dal cielo”, con Terence Hill che a 74 anni prova a muoversi come un capriolo sulle rocce dell’alta Pusteria. Se uno abita in montagna, deve per forza arrampicarsi fin sulla massicciata del posteggio, non può camminare su un viottolo come fa pure Manolo, quando prende l’auto.

Sono licenze che fanno sorridere, almeno chi ne capisce qualcosa. Chiunque girasse la scena di una partita di cricket senza saperne nulla, forse prenderebbe gli stessi svarioni. Però basterebbe cercare un pakistano che lo sa giocare in un parco pubblico di qualsiasi grande città italiana, per evitare gaffe. Agli sceneggiatori della tv italiana questo non viene in mente. Se vai in montagna, per dire, devi avere la piccozza sullo zaino, o meglio in mano, poco importa se la meta è una falesia a livello del mare. E’ la piccozza a farti scalatore, il manico bello lungo perché ti ci devi appoggiare. C’è da chiedersi che cosa farebbe uno sceneggiatore con un attrezzo moderno, tutto storto e lungo non più di mezzo metro. Gli salterebbero tutti i punti di riferimento. La variante è il martello: “La montagna degli italiani”, miniserie per Raiuno che avrebbe dovuto raccontare la salita al K2 del 1954, ne fa un sottotitolo che scorre idealmente sotto la scena: “Attenzione, questo è un alpinista”. Ovvio, ha il martello appeso alla cintura. Perfino quando esce dalla tenda, o discute con i portatori (avrà mica intenzione di picchiarglielo in testa?).

Sylvester Stallone lo ha legato al baudrier in una delle tante avventure impossibili di “Cliffhanger”. Serve anche qui per dire “state guardando uno scalatore” e a null’altro, perché nell’anello dell’attrezzatura non ci sono chiodi, solo dadi e friends.

Che differenza rispetto all’ottimo “K2-L’ultima sfida” di Franc Roddam (creatore di quel capolavoro del cinema rock che è “Quadrophenia”, ma anche del format di “MasterChef”) che all’inizio degli anni Novanta ha rischiato di vincere il festival di Trento. Una storia credibile, bravi attori che evidentemente di montagna se ne intendono e una scelta minuziosa e temporalmente corretta di abbigliamento e soprattutto attrezzatura. In “Vertical Limit” di Martin Campbell, del 2000, la storia credibile non è, d’accordo – certe scene d’azione sono degne di un videogame – ma almeno la ricostruzione non fa rabbrividire e alcune caratterizzazioni sono ben riuscite: valga per tutte la coppia di frikkettoni che passano la primavera al campo base, fumando hashish e sparlando dei colleghi, in attesa delle condizioni perfette della montagna che non arrivano mai.
Ecco, più che sugli schermi del cinema “grande”, gli stereotipi sono sparsi spesso a piene mani su quelli del cosiddetto “cinema di montagna”, i film che per decenni hanno costituito la spina dorsale delle rassegne specializzate nel mondo. Che cosa ci hanno raccontato, salvo rare eccezioni, di ciò che realmente avveniva ad alta quota? Sui blog, “La montagna degli italiani” è stata fatta a pezzi, ma è davvero peggio di tante pellicole di spedizione viste negli anni Ottanta, quando i campi base degli ottomila cominciavano ad affollarsi non solo d’un pugno di alpinisti di gran nome? E’ vero, i tantissimi film passati nei festival erano girati realmente sul posto, mentre la fiction di Raiuno oscilla tra il Monte Rosa e la Carinzia e lo stesso “Italia K2”, il documentario di Marcello Baldi del 1955, ha riprese del Monte Bianco passato per il Karakorum. Ma c’è voluto un libro, “Aria sottile”, per dire la verità sugli accadimenti di lassù: meschinerie, la dittatura degli sponsor, l’invasione delle spedizioni commerciali, il tramonto di “virtù” che in montagna dovrebbero essere fondamentali, la solidarietà in primis. E allora ben vengano le ingenuità del cinema hollywoodiano, che almeno non finge di essere obiettivo. E’ cinema, la realtà è altro.
Leonardo Bizzaro

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