I costi del turismo invernale

2 dicembre 2012

Breuil-Cervinia, 1934. Durante l’estate viene aperta al traffico la strada carrozzabile che da Valtournenche conduce agli alpeggi del Breuil, quota 2050 m. Percorrendo i ripidi tornanti giunge nella splendida conca un gruppo di imprenditori biellesi, guidati dalla visionaria figura dell’ingegner Dino Lora Totino, che inizia a studiare la conformazione dei pendii, a disegnare linee rette sulle mappe e ad abbozzare progetti. Questa cordata di industriali, come la definiremmo oggi, ha un sogno molto concreto in mente, un progetto chiaro per cui valga la pena investire ingenti capitali finanziari. Appena due anni dopo viene inaugurata la funivia di Plan Maison, ne passano altri tre e alle soglie della Seconda Guerra Mondiale gli impianti a fune raggiungono le nevi perenni del Plateau Rosà.

Breuil-Cervinia, 2008. La Regione Valle d’Aosta, attraverso la propria finanziaria FinAosta, acquista dalla famiglia Cravetto per tre milioni di euro il 64,98% della Cervino Spa, diventando l’azionista di maggioranza della società che gestisce gli impianti e le piste della località. Possibile che nessun imprenditore o cordata di investitori abbia individuato un’opportunità di business nel rilevare una delle principali stazioni sciistiche italiane e del mondo? Le piste sono adagiate proprio ai piedi del Cervino/Matterhorn, di per sé un’attrattiva turistica dal valore inestimabile; si trovano a quote elevate che ne garantiscono l’apertura da novembre a maggio; sono collegate con Zermatt, uno dei caroselli più conosciuti al mondo, aperto anche in estate. Paradossalmente queste caratteristiche non sono sufficienti per attrarre capitali privati. Morale della favola: è necessario l’intervento diretto dell’ente pubblico per salvare l’economia di una valle e di una regione intera.

Dal punto di vista strettamente economico l’intero comparto dello sci, a livello nazionale e alpino, si trova in una situazione di stallo. Crescono i costi di gestione. L’aumento delle temperature medie e la diminuzione delle precipitazioni nevose genera un incremento di spesa per l’innevamento artificiale; l’energia per azionare gli impianti e per battere le piste è sempre più cara; una concorrenza spietata costringe al continuo rinnovo e ammodernamento delle infrastrutture. Per quanto riguarda le entrate, non è possibile avere accesso a dati certi sui flussi turistici e sul numero di skipass emessi, ma la crisi economica e il cambiamento dei gusti di un pubblico molto esigente indicano un generalizzato calo di presenze nelle stazioni invernali delle Alpi. La rivista “Sci, il mondo della neve”, una delle realtà più accreditate del panorama italiano, che ha tutto l’interesse a non screditare un settore economico di tutto rispetto, riporta i seguenti dati per il 2012: «Il giro d’affari delle settimane bianche (comprensivo di coloro che hanno effettuato oltre alla settimana anche qualche week end sulla neve) è stato di 2,93 miliardi di euro (rispetto ai 4,32 miliardi di euro del 2011) per un decremento del 32%. Il giro d’affari generato da coloro che hanno invece esclusivamente effettuato solo week end sulla neve è stato di circa 2,42 miliardi di euro (rispetto ai 3,43 miliardi di euro del 2011) con un calo del 30%. La flessione complessiva del giro d’affari, prodotto da tutti coloro che hanno fatto vacanze sulla neve – tra il 2011 e il 2012, nda – si attesta dunque sul 31%”.

In Italia, si fa fronte a questa situazione attraverso finanziamenti pubblici, prevalentemente regionali, più o meno palesi e diretti. Dal contributo all’innevamento artificiale, all’acquisizione da parte degli enti pubblici delle società che gestiscono gli impianti a fune, fino ai finanziamenti per lo sviluppo della mobilità dolce e per l’adeguamento infrastrutturale delle stazioni. Sono quindi i cittadini, con le loro tasse, a sostenere un settore in difficoltà. Non è una novità e non rappresenta, di per sé, un’anomalia. La logica che guida il meccanismo è molto semplice. Le risorse economiche generate dallo sci generano posti di lavoro per la conduzione delle stazioni, e alimentano l’intera economia dell’indotto legata al turismo: alberghi, bar, ristoranti, negozi e altri servizi.
Si tratta certamente di un intervento necessario per gestire l’emergenza, ma è indispensabile guardare oltre e individuare politiche lungimiranti in grado di riordinare il comparto riducendo gli sprechi e allocando con più razionalità le risorse.
In Italia abbiamo già una discreta esperienza di settori produttivi e industriali parassitari, alimentati da ingenti quantità di denaro pubblico ma incapaci di generare una vera ricchezza. Per quanto riguarda la montagna è venuto il momento di investire su forme di economia legate al territorio, alle sue caratteristiche e ai suoi limiti. Le bolle speculative, si sa, prima o poi scoppiano.
Simone Bobbio

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