Gli scambi tra montagna e città. Chi ci guadagna?

9 febbraio 2017

La montagna è un territorio prevalentemente rurale che perciò dipende molto dalle città, ma è anche vero che una montagna vivibile, produttiva e ben curata può dare un contributo rilevante alla ricchezza e al benessere urbano. Lo si vede bene nelle grandi valli dove ci sono città di una certa importanza, come Aosta, Trento o Bolzano, che vivono in simbiosi con la montagna che le circonda. Dove invece le città non stanno tra i monti, ma solo nelle loro vicinanze, come nel caso di Torino, che pure ama definirsi “capitale delle Alpi”, esse sovente si comportano come se non avessero bisogno della montagna. I loro interessi e le loro attenzioni si orientano piuttosto verso i territori non montani circostanti, più popolosi ed economicamente forti. Oppure si ricordano della montagna quando fa comodo, come è capitato ad esempio per le Olimpiadi invernali del 2006.
Una ricerca condotta da Dislivelli parte dalla convinzione che questa “dimenticanza” sia dannosa non solo per la montagna, ma anche per la città e che derivi anzitutto dalla scarsa conoscenza delle risorse, dei valori e delle esperienze di vita che la montagna può offrire. Che quindi ci sia una potenziale convergenza di interessi per sviluppare e riqualificare, anche su basi solidaristiche, l’interscambio delle città pedemontane con i loro retroterra. Ciò richiede più consapevolezza e più impegno da parte di chi vive e opera in queste due realtà, solo apparentemente contrapposte. Poi ci vuole una politica rivolta a potenziare e regolare gli scambi sulla base di reciproci vantaggi.

L’indagine si divide in due parti. La prima riguarda l’analisi dei flussi di persone, beni, servizi, denaro, in cui si manifesta la complementarietà e il dare avere tra montagna e città. La seconda esamina i modi e gli strumenti di governance per regolare l’interscambio con vantaggio reciproco.
Per quanto riguarda i flussi e gli scambi va notato che mancano quasi del tutto i dati statistici, per cui dovendo ricorrere a un faticoso lavoro su fonti indirette e a indagini sul campo, si è dovuta limitare l’area di studio e fare alcune semplificazioni. Il territorio studiato è quello della Città Metropolitana (già Provincia) di Torino. E’ un caso emblematico perché in essa la montagna (intesa come l’insieme delle vecchie Comunità Montane) conta 277.000 residenti (il 12% della Città Metropolitana), distribuiti tra 115 comuni (il 48%), che occupano il 60,5 % della superficie territoriale metropolitana: 4.130 Km², quasi quanto si ottiene sommando tutte intere le province di Biella, Vercelli e Novara. La principale semplificazione è stata quella di dividere la Città Metropolitana in due parti di origine e di destinazione dei flussi: una di montagna e una di “città”, considerando cioè come un’unica grande area urbana il territorio metropolitano non montano. Dove possibile i flussi sono stati misurati in quantità fisiche e in valori monetari, anche ricorrendo a stime più o meno approssimate. Ecco i principali risultati.
Il flusso maggiore di materia è quello dei 3 miliardi di metri cubi di acqua corrente che vanno ogni anno dalla montagna verso la pianura urbanizzata, che però ne utilizza solo 1,6. Ad essi si aggiungono 420 milioni di metri cubi prelevati dalle falde sotterranee, anch’esse alimentate quasi tutte dalla montagna. In termini di persone il flusso maggiore è quello dei lavoratori pendolari, che sono ogni giorno 42.000 in uscita dalla montagna e 15.000 in entrata, con un totale di 14 milioni di viaggi di andata e ritorno all’anno. Segue per dimensione il flusso di chi abita in montagna e si reca in città per acquisti e servizi vari (sanità, scuola ecc) realizzando ogni anno 5,4 milioni di viaggi a-r. Al terzo posto si situa il va e vieni dei 630.000 torinesi metropolitani che frequentano la loro montagna come clienti di strutture ricettive, come villeggianti in seconde case di proprietà e in affitto e come escursionisti giornalieri. Nel loro insieme passano nella vicina montagna 5,7 milioni di giorni all’anno.
Se badiamo invece ai soldi, al primo posto si situano le retribuzioni dei lavoratori pendolari: 979 milioni di euro/anno in entrata nella montagna e 344 milioni di euro/anno in senso inverso. Segue la spesa effettuata in città dagli abitanti della montagna: 655 milioni di euro. La frequentazione turistica dei torinesi porta in montagna 213 milioni di euro, mentre le forniture di beni di funzionamento e di servizi rese dalla città a imprese ed enti vari della montagna sono pagate 570 milioni.
I flussi idrici vengono pagati dagli utenti urbani 1,7 milioni di euro all’anno nella forma di canoni per le concessioni di prelievo. Sempre sui canoni di concessione si basa il gettito annuo di 5,3 milioni di euro delle utenze idro-elettriche della montagna metropolitana. La loro notevole produzione (2.970 GWh/anno) viene immessa direttamente nella rete nazionale e quindi non può essere conteggiata come flusso all’interno della Città Metropolitana. Altre voci importanti, ma meno di quanto forse si crede (e soprattutto di quanto potrebbero essere), riguardano i flussi dei prodotti agricoli, dell’allevamento e del taglio dei boschi che tutti insieme portano in montagna 53 milioni di euro all’anno dalla città.
Infine la montagna riceve circa 17 milioni di euro all’anno (per lo più dalla Regione) per servizi detti ecosistemici (o ambientali) in essa prodotti, di cui beneficia anche il resto del territorio metropolitano. Sono il compenso, previsto da varie leggi, per la manutenzione del territorio, la cura e della regolazione delle acque. Questi soldi derivano in parte dai canoni demaniali sui prelievi idrici, minerari e per la produzione idroelettrica. Altri servizi ecosistemici, come la crescita spontanea dei funghi hanno un prezzo di mercato (2 milioni di euro/anno). Altri come l’assorbimento del CO₂ prodotto dalla città attendono di essere riconosciuti come “crediti di carbonio”. Altri ancora, come la libera fruizione di valori ambientali e paesaggistici vengono in parte remunerati attraverso la spesa turistica.
Alla fine resta la fatidica domanda: ma da questi scambi della montagna con la città quale delle due ci guadagna di più? La risposta non è semplice per almeno tre motivi. Primo: ci sono costi e benefici difficilmente monetizzabili. Ad esempio quanti euro vale una giornata trascorsa respirando aria pulita in un ambiente e in un paesaggio gradevole? O ancora: quanto vale il lavoro di chi con le sue cure fa si che questo ambiente e questo paesaggio siano gradevoli? Secondo: ci sono imprese di Torino che operano nella montagna, specie nel settore del turismo, quindi una parte (difficile da stimare, m non piccola) di quello che si spende in montagna torna in città. Terzo: il valore delle merci scambiate comprende anche quello dei beni e servizi di provenienza esterna. Ad esempio nel conto del ristorante di Bardonecchia c’è anche il costo della materia prima importata da Torino o da chissà dove. Oppure, quello che l’abitante della valle di Susa compra nel centro commerciale dei dintorni di Torino comprende poca roba prodotta a Torino. E così via. Un’idea però la possiamo avere se facciamo la molto grossolana ipotesi che negli scambi di beni e servizi gli utili siano proporzionali al fatturato delle imprese. In questo modo risulterebbe allora che la città guadagna circa tre volte quello che guadagna la montagna. Di fatto però questo disavanzo commerciale della montagna si riduce quasi del tutto se mettiamo sulla bilancia le retribuzioni dei lavoratori pendolari. Questi, come s’è detto, fanno entrare in montagna una massa di denaro enorme: quattro volte maggiore degli introiti (lordi!) del turismo, cioè di un’attività che viene ritenuta la maggior ricchezza della montagna metropolitana.
La conclusione è che oggi purtroppo la montagna non vive (o sopravvive) che in piccola parte esportando beni e servizi derivanti da sue specifiche risorse. E allora la domanda diventa: potrebbe essere diverso? E come? Per rispondere in modo esauriente alla prima domanda ci vorrà un’altra ricerca. Si può tuttavia anticipare una risposta largamente affermativa se si considera l’entità delle risorse disponibili, il loro sotto-utilizzo e soprattutto la carenza di attività capaci di trasformare e gestire queste risorse con il lavoro di chi abita in montagna, a cominciare da quello che adesso i pendolari vendono in città. Invece la risposta sul come farlo deve anzitutto considerare il ruolo che la città può avere, anche nel suo interesse, nei processi di sviluppo della montagna. E su questo vi invito a leggere l’articolo di Federica Corrado che tratta della seconda parte della ricerca
Beppe Dematteis

Commenti: 3 commenti

  1. fiorenzo scrive:

    l’intervento è molto istruttivo sulle forme di interdipendenza territoriale dell’economia e in particolare su quelle città-campagna. Ricordo che Perroux pensava lo spazio economico di un sistema territoriale come una matrice di flussi, ognuno proveniente da luoghi diversi.
    L’elemento che resta fondamentale da contabilizzare sono le esternalità e in primo luogo la Carbon footprint, in questo caso la montagna risulterebbe forse produttrice netta di capitale naturale (rigenerazione della CO2 emessa dalla pianura). Ma è da verificare (anche i suoi residenti inquinano).
    Complimenti

  2. Enzo Gioberto scrive:

    Inserite per favore i crediti della fotografia che correda l’articolo, che è di Franco Borrelli, un fotografo di Almese, pubblicata sul sito e sui social del progetto Laboratorio Valsusa, di cui sono tra i coordinatori:
    https://www.facebook.com/labvalsusa/
    http://www.laboratoriovalsusa.it/
    Grazie e complimenti per la ricerca

  3. issuu2 scrive:

    Caro Enzo, grazie per gli apprezzamenti. Abbiamo prontamente inserito i credit della foto, ci scusiamo per la dimenticanza e ringraziamo te e il fotografo.

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