Emilio*, freerider

6 luglio 2016

Ci sono dei termini che quando li vedi comparire all’orizzonte, quando li senti pronunciare o li leggi per la prima volta, pensi che ti piaceranno. Non hanno ancora preso una forza e un suono preciso nella tua testa, non sono di uso frequente nel linguaggio comune e probabilmente mai lo saranno ma tu, per quello che fai e per quello che sei, capisci che quel termine, quella parola che segui con lo sguardo come si fa con le onde quando partono da lontano in mezzo al mare, ti corrisponderà. Freerider. Rider come persona in mòto, in movimento. Non in gara. Non in competizione. Non corridore: in azione, una via di mezzo tra corsa e viaggio, è diverso. Rider significa colui che va, veloce, leggero, inarrestabile. Libero, c’è bisogno di spiegarlo libero? Free come libero, freerider come uno che uno corre libero, una cosa del genere. Mi piaceva. Libero dagli schemi, libero dalle definizioni, libero dagli standard, libero dalle categorie. Libero da tutto. Quando ho visto quella onda arrivare e ci sono saltato sopra la parola freeerider mi piaceva perché era sconosciuta ed era la sintesi di tutto, riassumeva me e il mio universo. Era il sinonimo di niente e di tutto insieme, tutte e due le cose. Io non ero sci-alpinista, non ero sciatore, non ero alpinista, non ero runner, non ero ciclista, non ero climber, non ero niente e allo stesso tempo ero tutte quelle cose lì messe insieme. Quelle cose erano la mia vita. Erano gli anni ’90 e la parola freerider non apparteneva a nessuno, nemmeno a chi la usava (e la usavano in pochi, in Italia soprattutto). Dicevi “freerider” e ti ridevano dietro, pensate a me che ci facevo una rivista con quel nome lì, un dramma. Lotta continua. Per certi dire o scrivere frerider era soltanto un modo snob di dire sci-fuoripista, oppure qualcuno lo pensava come il freestyle fatto in neve fresca o qualcosa del genere, quella roba. Fuffa. Invece non era niente di tutto questo, era altro. Essere freerider significava prima di tutto avere a cuore la purezza, la performance e l’attenzione del mentre, tutto insieme, in una parola: lo stile. Lo stile era tutto ed è difficile misurare lo stile. Potevi misurare la velocità, la pendenza, la lunghezza di una parete da sciare, l’ampiezza di una curva ma lo stile, quello beh, era tutta un’altra faccenda. Il freeriding era la somma di tutte quelle cose mescolate insieme, a conti fatti non si sa come ma ci si trovava sempre tutti più o meno d’accordo. Marco Siffredi, era stile. La Grave, era stile. Furgone dentro a cui dormire, era stile. Sci largo, era stile. Poche curve, era stile. Scalare quello che sciavi, era stile. Vestiti larghi, era stile. Veloce, era stile. E poi lo sapevi tu, da solo, lo sentivi quando sciavi bene e compariva lo stile. Lo sentivi dentro. Era nel momento esatto in cui tentavi di opporti alla forza centrifuga facendo correre gli sci lungo la traiettoria di curva che riuscivi a provare, per qualche istante, la sensazione autentica di essere impermeabile alla gravità, alle regole, ai luoghi comuni. Sciare diventava una questione personale, intima, estetica prima di tutto. Quell’epoca, gli anni ’90 erano una rivoluzione. Andavi a sciare e non era più solo sciare: era andare, prima di tutto. Ti proiettavi in avanti con il corpo e facevi sbandare gli sci di traverso, al diavolo la conduzione, al diavolo la prudenza e al diavolo le indicazioni del maestro di sci, tenevi lì gli sci o lo snowboard di traverso il più a lungo possibile in quella terra di nessuno che è lo sbandamento, giocavi a lungo con la neve e con le lamine prima di incominciare la curva. La rivoluzione del freeride non era la curva in sé, non c’era più uno scopo o una tecnica. C’era tutto il resto. Freeriding era tutto il resto, quello che fino a quel momento avevamo trascurato, era il tentativo di prolungare quell’attimo di estasi scivolatoria all’infinito.
In fondo per molti di noi è ancora così, per me è così, non è cambiato niente. E’ cambiata solo la parola, che non mi piace più e che mi va stretta. La parola l’ho vista frangere a riva e riempire la bocca di tutti, l’ho vista diventare di tutti. L’ho vista rotolare e avvolgersi su se stessa nella risacca, come un corpo morto, come roba di nessun valore che dopo il tormento delle onde che frangono si arena sulla battigia. Il freeriding è diventato uno sport con le sue regole, con i suoi campionati e i suoi campioni, con le sue leggi e la sua federazione addirittura. Il freeriding è diventato uno stile di vita e per me è morto, per quelli come me è morto, noi uno stile di vita ce l’avevamo già. Il freeriding era altro. Era tutto e niente. Il freeriding esiste e non esiste, è l’arte senz’arte. Valla a spiegare adesso a un giovane sciatore, questa cosa. A spiegare che il freeriding non dice di noi ma dice dell’aria, dell’acqua, della terra. Vallo a spiegare.

* Nato a Bergamo, ha scivolato su tutte le nevi della Terra compiendo anche ardite e difficili spedizioni che lo tengono lontano da moglie e figli per giorni. E’ uno dei massimi esperti in materia di freeride, telemark, sci alpinismo e spedizioni in Europa, già direttore della mitica rivista Free.rider, attualmente tra i migliori storyteller della montagna.

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