Domanda di montagna

11 settembre 2018

Il Museo Nazionale della Montagna ha ospitato il 24 maggio l’appuntamento “Vado a vivere in Montagna”, un momento di pubblica visibilità per “InnovAree”, iniziativa promossa da Accademia Alte Terre, Collegio Carlo Alberto, Uncem e SocialFare che mira allo sviluppo delle aree interne e montane piemontesi, mettendo in relazione i tanti soggetti portatori di “domanda di montagna” come progetto di vita, di imprenditoria, di socialità e lavoro, con l’offerta di (micro)credito a livello regionale. InnovAaree si è costituita per coordinare, promuovere, orientare e sostenere tutte quelle iniziative – diffuse ma isolate e frammentarie – che possono concorrere a ridare vita ai territori marginalizzati e a volte desertificati, con una particolare attenzione agli aspetti sociali, ambientali, culturali, economici che possano configurare modelli “sostenibili” di insediamenti montani.
La ricerca dell’associazione Dislivelli, pubblicata nel volume Nuovi montanari – abitare le alpi nel XXI secolo (2014), rivela che portatori di questa domanda sono prevalentemente famiglie giovani, singoli (più maschi che femmine) che scelgono di andare a vivere in montagna alla ricerca di una migliore qualità di vita e di nuove opportunità lavorative. Si tratta di persone con profili professionali ed educativi medio/alti e spesso capacità imprenditoriali che vengono prevalentemente dalle aree urbane, anche se le loro radici famigliari risalgono alla popolazione montana.
Molte domande sono finora pervenute attraverso l’apertura di un apposito “sportello” temporaneo, altre si prevede arrivino in futuro per un fisiologico effetto di propagazione, e potranno ricevere il supporto di mentor esperti in vari settori. Le proposte così raccolte andranno a costituire un database di progetti supportabili tramite il micro-credito e l’apporto degli strumenti della finanza etica. IN/Arch Piemonte è tra i partner dell’iniziativa, insieme a sociologi, geografi, agronomi, fondazioni bancarie e operatori del credito, con la specifica missione di fornire un primo contributo di screening e orientamento, dal punto di vista architettonico, territoriale, ambientale, normativo, tecnologico.

Città densa e città diffusa: dove sono le opportunità?
L’iniziativa si può direttamente ricondurre al tema generale, proposto quest’anno dal congresso nazionale di IN/Arch: “Bigger is Better? (sottolineando il punto interrogativo) Città 4.0, Resistenza accoglienza e resilienza: una via italiana all’innovazione” e che si basa su alcune considerazioni:
- nel mondo globalizzato si è affermato il paradigma secondo il quale solo la grande città, la città globale che ospita molti milioni di abitanti ed è basata sul principio della concentrazione e della competitività, è in grado di attrarre investimenti, di produrre innovazione e ricchezza, di offrire opportunità elevate di lavoro, cultura, servizi, benessere, promozione sociale, a chi la abita;
- l’Italia – con il suo territorio articolato in una eterogeneità di tipi, morfologie, ambienti, culture, che ha sviluppato una storia di realtà disseminate e molteplici, che ha basato il proprio modello produttivo su imprese medio piccole, aggregate in distretti produttivi che solo raramente si trovano all’interno delle aree metropolitane – suggerisce invece un paradigma diverso, basato su assetti insediativi e modelli economici di diversa grana, in cui la capacità d’innovazione, di far rete, di cooperare, approfittando dell’agilità e resilienza di una dimensione insediativa e imprenditoriale più minuta, può rappresentare forse un’opportunità, nella misura in cui ci si dimostri capaci di riconoscere in questi caratteri il punto di forza di un progetto, piuttosto che l’anomalia nei confronti di modelli basati su concentrazione e omologazione. Anche il modello olandese della rete di città di dimensioni medie, ma fortemente interrelate da infrastrutture fisiche, d’informazione, coordinamento e integrazione, sostenute dal ruolo organizzato e istituzionalizzato della partecipazione, pare fornire indicazioni molto interessanti.

Saper valorizzare il territorio montano
Oggi, con la crisi della grande manifattura e la nascita di nuove forme di lavoro non più basate sul principio della concentrazione, con lo sviluppo delle reti di comunicazione fisiche e virtuali, con l’allungamento della vita media e la consapevolezza che essa si può comporre di fasi diverse ancorate a un rapporto diverso con il lavoro, con le scelte insediative, con il proprio progetto individuale di ruolo sociale, di relazione con i nostri simili e con l’ambiente naturale, possiamo riconoscere che stanno mutando radicalmente le categorie dello spazio/tempo.
Contemporaneamente, aumenta la preoccupazione per i gravi segnali di minaccia ambientale che derivano appunto dal processo di crescita indiscriminata del consumo delle risorse del pianeta. Nello specifico della nostra regione (ma non solo), l’abbandono delle aree non urbane e in particolare dei territori montani si è dimostrato, con gli incendi dell’ultimo autunno, un forte elemento di criticità, il cui antidoto prevalente è quello della ri-popolazione dei territori.
Possiamo allora immaginare una fase di passaggio, da una cultura prevalentemente urbana (quella in cui la bigness costituisce comunque un orientamento, un modello di crescita e governo, che permea anche situazioni insediative diverse dalle megalopoli globali) ad una cultura fondata su reti insediative di dimensioni variabili, dalle città al borgo, che garantiscano un minor livello di congestione e una più radicata relazione col territorio? Il che non intende giustificare uno sviluppo territoriale indifferenziato, in cui lo “spread” produce una dispersione priva di identità, che annulla la qualità del paesaggio e ne azzera il valore di “bene comune”. Si tratta – anzi – di valorizzare la diversità del territorio, dell’orografia, del paesaggio a partire da specificità, vocazioni, storia, risorse diversificate, senza però rinunciare a esaltare l’azione dell’insediare come espressione di valori sociali e civili.

Libertà e fare montano
L’insediamento in territori montani significa un sistema di manufatti concepiti in relazione tra loro e in relazione con l’ambiente e il paesaggio, significa attribuire loro una struttura e un principio insediativo, significa articolare gli spazi comuni e quelli privati, significa dotarli di spazi di socialità e aggregazione, spazi per il lavoro, spazi per la formazione e la cultura, servizi di base e probabilmente altre cose ancora.
L’insediamento in montagna non deve essere necessariamente e conformisticamente subalterno a luoghi comuni, a schemi e immaginari artificialmente precostituiti che rimandano al cliché della baita isolata, dello chalet (magari in stile neo-tirolese), dell’assoluta ortodossia verso i materiali tradizionali come ossequio a un concetto di gradimento prodotto da un’idea acritica e conformista di cultura costruttiva. Gli stessi principi della sostenibilità, oggi consolidati in norme e standard, se applicati a questi vincoli conformisti, producono infatti falsi paradossali, come le murature in pietra che anziché assolvere al loro ruolo originario, diventano rivestimento, sotto cui nascondere materiali e tecniche necessarie ad evitare dispersioni e garantire tenuta sismica. Le architetture montane dei migliori architetti della contemporaneità hanno piuttosto dimostrato che il principio enunciato da quelle opere è la capacità di reinterpretare, risalendo ai reali principi, alle logiche che hanno storicamente prodotto manufatti in stretta connessione con le culture materiali del territorio e del tempo a cui appartengono.
Tutto questo suggerisce almeno due riflessioni di carattere generale su cui varrebbe la pena soffermarsi e aprire un paziente dibattito: la nostra civiltà – quella occidentale, ma non solo – è da millenni caratterizzata da un orientamento fortemente urbano, in base al quale la città, nel suo divenire storico – tende a esprimere l’espressione più evoluta del proprio livello civile, in termini sociali, economici, culturali. La città è ritenuta il luogo vitale dell’incontro, delle opportunità, del concentrarsi delle energie propulsive. Eppure, si moltiplicano i segnali secondo i quali la percezione della città oggi sta mutando. Per dirla con Zygmunt Bauman, la città contemporanea appare il luogo in cui sempre più chiaramente emergono i risvolti minacciosi di una società liquefatta, dove le masse sottoposte alla morsa dalla crisi, alla forte instabilità legata alla globalizzazione, percepiscono maggiormente solitudine, marginalità, segregazione…
Quello che forse ancora è poco presente, soprattutto nella consapevolezza di chi fino ad ora ha espresso una domanda di “vita in montagna”, parte invece dalle ragioni che hanno portato nella storia recente ad abbandonare la montagna: la mancanza di opportunità di emancipazione sociale, culturale, economica, la liberazione dalla fatica e dalla marginalità, di cui invece la città ha rappresentato fino ad oggi le condizioni di maggiore opportunità. Per procedere verso una valutazione delle condizioni contemporanee e di quanto quelle ragioni oggi potrebbero incontrare risposte innovative, nella prospettiva di una maggiore integrazione dei modelli insediativi, dove città e montagna non costituiscano più categorie antagoniste e così profondamente gerarchizzate, dove si configurino modi e figure diverse del rapporto tra globale e locale, tra solitudine e comunità, tra lavoro e tempo libero.
Non bisogna tra l’altro dimenticare che la ricostruzione dei borghi alpini è stata da più parti interpretata come opportunità di accoglienza e integrazione, anche nei confronti delle popolazioni migranti, complementare ad altri percorsi di accoglienza e integrazione di carattere più urbano.
Franco Lattes

Leggi l’articolo originale su Il giornale dell’architettura

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