Dolomiti, cuore d’Europa

29 luglio 2021

Giovanni Cenacchi, “Dolomiti cuore d’Europa. Guida letteraria per escursionisti fuorirotta”, a cura di Giuseppe Mendicino, Hoepli 2021, 230 pp, 18,99 euro.

Ho da poco terminato la lettura di “Dolomiti cuore d’Europa. Guida letteraria per escursionisti fuori rotta”, la bella raccolta di scritti (e di itinerari alpini) di Giovanni Cenacchi, curata da Giuseppe Mendicino e uscita quest’anno nella collana Stelle Alpine delle edizioni Hoepli. Prima di chiudere il libro, mi sono soffermato a lungo su una delle sue ultime pagine, nella postfazione scritta proprio da Mendicino: una foto in bianco e nero ritrae Cenacchi con in braccio sua figlia Viola, una bambina che avrà cinque o sei anni, i capelli nerissimi, tenuti fermi da una mollettina di traverso. Guarda lontano, Viola, seduta sulle gambe del suo papà. Dietro, sullo sfondo, prati di montagna.
Giovanni sorride, spettinato. Anche lui guarda in là, ma da un’altra parte, con sua figlia stretta fra le braccia.
Dopo essermi fatto guidare da Cenacchi, nella sua patria montana d’elezione, in quel suo vagabondare, mai distratto anche quando fuori rotta, per valli e crode dolomitiche, voglio parlare con questa sua bambina, con la ragazza che nel frattempo è diventata. Voglio domandarle quanto conta oggi per lei la montagna, che posto hanno le Dolomiti nella vita e nell’immaginario di una laureanda in management dei beni culturali allo IULM di Milano. Se anche a lei capita di andare “fuori rotta”, sulle orme di suo padre.
Raggiungo Viola al telefono in un caldo pomeriggio di inizio estate: tutti e due siamo lontani dai monti oggi, immersi nella pianura padana.
Viola, quale è il tuo rapporto con la montagna?
«Sin da molto piccola ho sviluppato un legame profondo con la montagna, e con le Dolomiti in particolare. Abbiamo una casa a S. Candido, in Alto Adige, che aveva acquistato mio papà tanti anni fa: frequento quei luoghi da quando sono nata. Quando ero bambina, per me quello era il mio posto felice, dove avrei voluto tornare in ogni momento dell’anno. Un luogo legato strettamente a mio padre, al mio rapporto speciale con lui. Quando papà è mancato (nell’agosto del 2006: Viola aveva 6 anni), ho avuto tanti amici che mi sono stati vicini, tra cui Pier Paolo Rossi, cugino di papà, che per me è come uno zio; con loro ho continuato ad andare in montagna, da piccola e negli anni a venire: mi hanno aiutato a coltivare questa passione. Poi l’ho fatto anche in autonomia, crescendo: ho iniziato ad arrampicare, mi piace sciare. Ma negli ultimi anni ho riscoperto proprio il camminare. Per me oggi l’escursionismo è anzitutto un modo per stare con me stessa: una attività contemplativa, a contatto con la natura ma soprattutto con la mia dimensione interiore».
Hai mantenuto un rapporto particolare col territorio tra Dobbiaco e il Cadore?
«Sì, per me quella è davvero casa. Uno dei luoghi a cui sono piu legata è il monte Baranci, di cui conosco ormai tutti i sentieri e le salite, percorsi moltissime volte. L’anno scorso poi, per la prima volta, con Pier Paolo Rossi e sua figlia Linda sono stata sulle Marmarole, il luogo più amato da mio papà, quello dove spesso andava da solo. Sono salita là dove sono state seppellite le sue ceneri, proprio vicino al Bivacco Musatti. E’ stata sicuramente una delle più intense e forti esperienze della mia vita, per il significato emotivo personale, e per la straordinaria bellezza di quei monti. Il complesso delle Marmarole è ancora oggi poco esplorato e conosciuto: non è facile da raggiungere, ci sono anche tratti attrezzati e un po’ impegnativi. Ma poi si arriva lassù, in uno spazio molto selvaggio, dove si apre un enorme anfiteatro di pietra, che non può non restarti nel cuore».
Eppure tu mi hai detto che non ti definiresti davvero una escursionista: come mai?
«Forse perchè la montagna non riesco a praticarla tutto l’anno, per lo studio e la vita in città, a Milano: lo faccio soprattutto d’estate, quando ho il tempo per venire in Dolomiti. Per cui certo non mi definirei una escursionista esperta. E poi sino a qualche anno fa mi interessavo di più all’arrampicata, anche allo sci: sino a che appunto ho riscoperto il piacere di camminare, il valore profondo di questo vagare tra i monti…»
Quando tuo padre ha iniziato a scrivere di escursionismo, negli anni Ottanta del secolo scorso, questa pratica era ancora considerata un passatempo da turisti, una attività di serie B rispetto all’alpinismo. Ora invece si guarda all’escursionismo in modo del tutto diverso, con molta più attenzione: tuo padre sembra aver precorso i tempi..
«Mio padre in realtà arrampicava, e anche bene. Sciava, praticava diverse attività sportive alpine, spesso con ottimi risultati. Eppure non classificava le attività in montagna per livello di importanza. Per lui non c’erano gerarchie tra i modi di vivere e frequentare le Alpi, a patto che si affrontasse la montagna con curiosità e con attenzione, con spirito di esplorazione. L’escursionismo poi è una attività davvero unica, che consente di stare soli con se stessi, camminando, muovendosi nello spazio montano in piena libertà. Un approccio molto diverso da quello dell’alpinismo: non devi stare così attento mentre procedi, hai spazio per le tue riflessioni, il tuo sentire. Ti puoi concedere una maggiore concentrazione sulla tua esperienza interiore, e sui tuoi pensieri».
Anche tuo padre racconta spesso le sue escursioni come un viaggio interiore: gli studi filosofici quanto credi che abbiano influenzato il suo modo di vivere e di narrare la montagna?
«Sicuramente tanto. Papà era un appassionato di Nietzsche e della filosofia occidentale in generale, passione che mi ha passato. Anche io vivo la montagna con un approccio diciamo “filosofico”, cioè attento sempre alla dimensione spirituale e intellettiva di questa esperienza. Leggo di montagna, anche se non in modo così approfondito, ma certo preferisco quando viene raccontata in questo modo, piuttosto che nelle relazioni tecniche e specialistiche. E questo era appunto il modo di viverla e di raccontarla di mio padre».
Non è un caso che oggi vengano ripubblicati gli scritti di Giovanni Cenacchi. Stiamo assistendo ad un fenomeno di scoperta della montagna come esperienza interiore, “lenta”, in profondità, e quindi molto lontana sia dalle prestazioni alpinistiche, sia dal turismo di massa. E la pandemia sembra aver accentuato questo nuovo modo di vivere e di rappresentare le terre alte…
«E’ una esperienza che sto vivendo anche io. Proprio la scorsa estate, dopo il primo lockdown, per la prima volta in vita mia ho incontrato e conosciuto tanti ragazzi in montagna, che camminavano sui sentieri, nei boschi, come mai mi era capitato. Non sempre erano appassionati di montagna, a volte non ci erano neppure mai stati, ma tutti mi hanno comunicato la voglia di esplorare, di mettersi in viaggio verso una meta che credo sia anzitutto interiore. Ciascuno con la sua personale voglia di andare, magari anche “fuori rotta”. E’ come quando hai vagato tutto il giorno per i monti e torni giù la sera al posteggio, dove hai lasciato la macchina: e un po’ ti viene la depressione, per quello che hai lasciato lassù, per essere tornato a valle. Ma anche ti senti una persona più ricca, per quello che porti a casa con te, che ti è rimasto dentro, e che diventa parte di te».
A proposito di quanto si porta a casa da una escursione, tuo padre aveva un rapporto particolare con le immagini, e con la fotografia, di cui era appassionato. Eppure anche scriveva: “Le immagini delle montagne non sono infinite, si consumano…”. Che cosa significa per te questo suo richiamo a non eccedere nel “consumo visuale” della montagna?
«Mio papà non ha vissuto questa epoca di produzione e flusso continuo di immagini digitali. Lui aveva una grande passione per la fotografia, quella tradizionale: ho appena trovato in casa due suoi vecchi apparecchi fotografici, che vorrei sistemare. Ma era anche una persona ricca di contraddizioni, come tutti quelli che si pongono molte domande, che ragionano sul mondo senza guardarlo da una sola prospettiva. Quindi, sì, amava fare fotografie ma anche credeva che non dobbiamo consumare, banalizzare qualcosa di così importante come la montagna e la natura. Non dobbiamo esagerare nel cercare di appropriarci di qualcosa che non ci appartiene e rispetto a cui noi, tutto sommato, siamo ininfluenti. Alle montagne non cambia nulla se noi le fotografiamo o no: ma cambia qualcosa per noi, se le guardiamo col desiderio di impadronircene o con un atteggiamento di rispetto. Con la consapevolezza che dobbiamo rispettare il senso del limite».
Saluto Viola. Mi manderà tra poco alcune sue foto, proprio sulle Marmarole. Prima di chiudere il libro, ripenso all’invito tante volte ripetuto da Cenacchi nelle sue pagine, un invito che solo in apparenza sembra un ossimoro: siate attenti in montagna, soprattutto quando vagate fuori rotta. Ricordatevi che l’escursionista distratto rischia di perdere tutti i suoi beni.
Andrea Membretti

“Dolomiti cuore d’Europa” ha vinto il Premio della Montagna Cortina d’Ampezzo: https://www.bellunopress.it/2021/07/07/premio-cortina-2021-vince-teresa-ciabatti-con-sembrava-bellezza-a-giovanni-cenacchi-il-premio-montagna/

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